Vigorelli, mon amour

 

Qualche tempo fa ho letto sul "Corriere" la notizia della ventilata ipotesi di ristrutturazione del Vigorelli.

L’impianto, così com’è, ha costi di gestione troppo alti, non è funzionale, non porta introiti. Si vorrebbe ridimensionarlo, accorciare la pista, coprirla e sfruttare gli spazi recuperati per altre attività più remunerative.

Che tristezza!

Per gli appassionati di ciclismo andrebbe a sparire un tempio; sarebbe come ristrutturare il Duomo di Milano e ridurlo a chiesa parrocchiale.

Non so che fine abbia fatto questa idea ma ieri, sfogliando alcune vecchie riviste, ho trovato foto e articoli sulla pista di via Arona. Ho chiuso gli occhi, respirato profondamente e mi sono tornati alla mente ricordi di mezzo secolo fa, sensazioni, profumi, rumori che mi sono rimasti appiccicati addosso da allora, da quando il Vigorelli era veramente la "pista magica".

Come dimenticare le lunghe attese per l’arrivo del Giro di Lombardia oppure le sfide tra i grandi velocisti? E poi i duelli Coppi-Patterson, Coppi-Schulte, Messina-Anquetil nell’inseguimento? E le velocissime gare degli stayers dietro assordanti e vecchie motociclette nere con trasmissione a cinghia? E l’interminabile ora di Ercole Baldini, conclusa trionfalmente nella semioscurità illuminata da migliaia di fiaccole che la folla festante aveva improvvisato dando fuoco a giornali arrotolati? E la voce inconfondibile di Carlo Proserpio, mitico speaker, che annunciava dalla torretta dei cronometristi?

Il Vigorelli aveva anche un re. Il re del Vigorelli era Antonio Maspes …. ma di questo parleremo un’altra volta.

Ogni anno il Vigorelli apriva ufficialmente i battenti il lunedì di Pasqua con una grande riunione che vedeva impegnati i migliori specialisti della pista e anche i più noti stradisti. La stagione terminava ai primi di novembre con l’arrivo del Trofeo Baracchi, classica gara a cronometro a coppie. La pista, comunque, da marzo ai primi di novembre, era frequentata tutti i giorni per gli allenamenti e restava chiusa solo la domenica se non erano previste gare.

Era bellissimo andare al Vigorelli durante gli allenamenti. Si vedevano girare contemporaneamente professionisti, dilettanti, allievi ed esordienti. Ogni tanto, quasi all’improvviso, si formava un casuale "treno" eterogeneo e tutti via a "menare" di brutto con cambi regolari e tirate commisurate alla capacità dei singoli. Poi, improvvisamente come era iniziato, il "treno" perdeva velocemente le varie carrozze e poco dopo tutti si sparpagliavano a rifiatare, pedalicchiando sulla fascia di riposo. Intanto qualche velocista provava uno scatto bruciante, una volata contro avversari invisibili oppure un acrobatico "surplace" sull’esterno della pista, all’inizio di una curva, laddove la pendenza favoriva l’esercizio.

Durante la settimana i cancelli d’accesso per il pubblico restavano chiusi. Si poteva entrare attraverso una pesante porta ricavata nel grande cancello d’acciaio situato all’angolo di via Arona e via Giovanni da Procida. Lo stesso cancello era quello che veniva aperto per l’ingresso dei corridori al termine del Giro di Lombardia, del Baracchi o dell’ultima tappa del Giro d’Italia.

Superata con fatica la pesante porta, avevamo, a destra, l’abitazione del custode, il corpulento e rubizzo Battista, che indossava abitualmente un abito grigio con le mostrine del comune di Milano, esattamente come i bidelli delle scuole.

Superata l’abitazione del Battista, una porta neanche troppo grande immetteva nella zona sottostante la tribuna centrale. Si percorreva un lungo corridoio con in fondo i servizi, molto spartani a dire il vero: diversi lavandini, alcuni WC e niente altro. Sul lato destro del corridoio si affacciavano gli spogliatoi che, non so perché, venivano chiamati "cabine". Le "cabine" erano piccole stanze dal soffitto altissimo e contenevano di tutto: biciclette appese, un paio di sedie o una panca di legno, ferri da meccanico, pezzi di ricambio, pompe, asciugamani, accappatoi, tute, stracci bisunti, berrettini, vasi, vasetti, tubetti e un tavolaccio di legno per i massaggi.

Il lungo corridoio era inondato da un odore composito di muffa, grasso e unguenti, nel quale dominava, inconfondibile, il profumo potente dell’olio canforato.

A circa metà corridoio, sulla sinistra, una rampa di scale portava al sottopassaggio, un lungo corridoio dall’odore di muffa, dove i passi e le parole rimbombavano in modo fastidioso. Al termine del corridoio, un’altra rampa di scala immetteva direttamente all’interno del recinto corridori, quella zona del prato che, con felice similitudine, Gianni Brera aveva ribattezzato "zeriba".

Il recinto corridori era semplicemente una porzione quadrata di prato, delimitata da tubi Innocenti, all’interno della quale restavano i corridori durante le pause. Il recinto era in pratica la ripetizione esterna, collettiva e ridimensionata delle "cabine": vi si trovavano più o meno le stesse cose ad eccezione del tavolaccio dei massaggi.

Dall’interno si aveva un colpo d’occhio magnifico. La pista, con i suoi 397 metri e 53 centimetri di sviluppo alla corda, sembrava immensa e le tribune, con la tettoia che copriva anche buona parte del parquet, era imponente.

Il fascino del Vigorelli non poteva lasciarmi indifferente. Fin da bambino avevo sognato di salire sulla pista magica.

Fu così che, un pomeriggio di primavera del 1958, con la licenza da "esordiente" in tasca e una bicicletta da pista rossa presa a nolo per duecentocinquanta lire, salii, tutto emozionato, i gradini che conducevano alla "zeriba".

La pista era quasi deserta: giravano solo quattro o cinque dilettanti. Mi avvicinai alla linea di riposo in punta di piedi per non sporcare gli scarpini con la terra del prato, posai delicatamente la bici sul parquet, salii e cominciai a girare adagio sulla fascia di riposo. Era una sensazione stupenda. Sentivo solo il fruscio dei tubolari sui listelli di pino della Val di Fiemme e mi immaginavo straordinarie volate, colpi di reni e inebrianti vittorie.

Le curve ripidissime, però, mi incutevano timore. Mi era stato detto che, per imparare, dovevo seguire la linea azzurra di centro pista e andare ad una velocità di almeno 30-35 km/h. A velocità più basse non sarei "stato su".

Ad un certo punto mi decisi. Lasciai la fascia di riposo, mi portai sulla linea azzurra e cominciai a spingere alla velocità consigliatami. Rigido come un manico di scopa, i denti serrati, affrontai la curva dopo il rettilineo d’arrivo. Era ancora peggio di quanto pensassi. A quella velocità restavo perpendicolare al suolo e non alla pista per cui il gomito destro sfiorava il parquet mentre sul lato sinistro avevo praticamente il vuoto. Mi sembrava di essere nel pozzo della morte.

Provai alcune volte poi, spossato più dalla tensione che dalla velocità, tornai a girare sulla fascia di riposo.

Mi parve che mi si fosse allentata la cinghietta del fermapiede destro. Con molta cautela, dettata dalla desuetudine all’uso del pignone fisso, mi chinai a regolare la fibbia. Quando rialzai lo sguardo mi trovai davanti la schiena blu e nera di Ballan, un dilettante di secondo piano della U.S. Azzini, che stava procedendo molto lentamente. Eravamo all’ingresso della curva. Non potevo rallentare più di tanto e non sarei mai riuscito a superarlo sulla destra perché non sapevo come affrontare, in una situazione del genere, la pendenza della pista. Ebbene, non trovai di meglio che sorpassarlo da sinistra, sul prato, per poi rientrare sulla fascia di riposo.

Mentre un lungo brivido per lo scampato pericolo mi percorreva la schiena, udii la voce di Ballan: "Ehi, ma cosa fai? Sei ciucco?"

Feci finta di niente. Percorsi mezzo giro, scesi di pista, riconsegnai la bicicletta e me ne andai in tribuna: avevo capito che non sarei mai diventato un pistard.

 

 

6 dicembre 2004