Quando si andava in canna
"Santa bicicletta" titolava un articolo di Gino Magnani, il primo maggio del 1946, sulla rivista quindicinale "Ciclismo italiano". L’autore proseguiva poi chiedendosi: "E se non l’avessero inventata?". L’articolo era praticamente una elegia alla bicicletta sia da corsa sia, soprattutto, da viaggio e introduceva ad una presentazione di quella che era la produzione delle bicicletta nell’Italia del primissimo dopoguerra.
Qualche pagina dopo, su una facciata divisa in due, venivano pubblicizzati il Mosquito Garelli e le biciclette Bianchi. Il Mosquito, a quei tempi, era ancora "roba da sciùri"; la Bianchi traeva lo spunto dalla recente straordinaria impresa della Milano-Sanremo per cercare di incrementare le vendite delle biciclette da viaggio: "La Bianchi è la fiaccola che ha guidato la Milano-Sanremo della rinascita".
Sullo stesso numero della rivista, Orio Vergani, in un arguto "Quadernetto", elencava i grandi meriti della bicicletta come primario mezzo di trasporto durante il periodo bellico e proponeva un monumento alla bicicletta, come, dopo la prima guerra mondiale, Pietro Canonica aveva dedicato un monumento al mulo. "Pensa, amico, che meraviglioso tema per uno scultore ottocentista. In alto, sul piedistallo, una bicicletta; oppure, per imitar le antiche quadrighe, quattro biciclette affiancate, con quattro diversi tipi di pedalatori di guerra: il papà sfollato, il borsanerista campagnolo che arriva in città col sacchetto della farina bianca, l’impiegatella che corre verso l’ufficio, l’operaio che, col filoncino di pane in tasca, va all’officina".
Effettivamente, per il servizio prestato in quell’orrendo periodo, avrebbe meritato un monumento e molti meriti avrebbe acquisito anche negli anni del dopoguerra.
La bicicletta era il mezzo di trasporto più economico e quindi più diffuso. I diversi costruttori costruivano bici da corsa, magari avevano anche una squadra professionistica, per promuovere le vendite delle biciclette da viaggio.
Con la bicicletta, specialmente in campagna, si faceva tutto: si andava a fare la spesa, al bar, al cinema, alla balera, alla partita, in officina, all’ufficio, a fare una gita.
Noi, ragazzi degli anni ’50, stravedevamo per Coppi e Bartali e pedalavamo su qualsiasi attrezzo avesse due ruote.
A Milano non avevo la bici: c’era troppo traffico …. era pericoloso. Sarei riuscito ad averne una, da corsa, solo nel 1957, a quindici anni.
A Langhirano, dove trascorrevo le vacanze estive da nonna Adele, invece, vivevo in simbiosi con la bicicletta. Era una bici "misura ragazzo" che usai sino ai quattordici anni miei ed alla consunzione della stessa. Era un po’ piccola per un quattordicenne ma quello passava il convento. A mezzogiorno pranzavo in fretta per correre dal mio amico Giovanni Morelli. Il motivo era semplice: mentre la sorella ed il padre di Giovanni mangiavano ci impossessavamo delle loro biciclette e via! Rapidissimi perché, finito il pranzo, papà e sorella avrebbero ripreso le bici per tornare al lavoro.
La bici del papà di Giovanni era enorme e, anche con il sellino schiacciato sul piantone, si faceva fatica a raggiungere il pedale al punto inferiore. La chiamavamo "il ciclone". Era tutta nera, senza alcuna cromatura, dicevano che era una bici tedesca. Quella della sorella era una "Leoni" da donna color verde moscio e la retina paragonne a protezione della ruota posteriore. Un solo rapporto per entrambe: 44x18.
Impugnavamo le leve dei freni per simulare un improbabile manubrio da corsa e via a fare una volata sulla provinciale. Tornavamo puntuali e trafelati, con la pastasciutta di mezzogiorno che tentava di fare capolino.
C’erano poi i virtuosi della bici. C’era chi pedalava stando seduto sul manubrio, voltandosi di tanto in tanto per vedere di non finire nel fosso. C’era già chi impennava e c’era chi, così facendo, si ribaltava.
Sempre con Giovanni e con il "ciclone" di suo padre andavamo in due, uno da una parte e l’altro dall’altra, con un pedale per uno, una mano sul manubrio e l’altra sulla sella. Il difficile di questo esercizio era mantenere una pedalata "rotonda", superare, cioè, il punto morto superiore e quello inferiore.
Qualche anno più tardi, quando avevo già la bici da corsa, la sera, per via del fanale, giravo per le vie del paese sulla canna della bicicletta da viaggio, una rossa "Leoni con tanto di cambio Simplex quattro velocità, del papà di Giancarlo Marchi. Giancarlo, seduto sul sellino, pedalava appoggiandomi le mani sulle spalle, e io, seduto sulla canna, guidavo.
"Andare in canna". "Portare in canna". A quei tempi era il massimo!
Andavano "in canna" uomini, bambini, donne, fidanzate, mogli.
Che bello portare "in canna" una ragazza. Il ragazzo, in bicicletta, incontrava la ragazza, la invitava a salire e, al suo assenso, si metteva eretto sulla sella, spostava il braccio sinistro all’indietro, allargava la gamba sinistra con il piede appoggiato sul pedale al punto morto superiore e la ragazza saliva, si sedeva sulla canna e allungava le gambe verso l’esterno, accavallandole e serrando tra di esse la gonna, al fine di evitare disdicevoli svolazzi. Bellissimo! Era come fare salire galantemente una signorina in automobile.
Io non ho mai portato una ragazza "in canna". Purtroppo! Infatti, quando finalmente ho raggiunto l’età sufficiente per "portare in canna" una ragazza, non c’erano più ragazze disposte ad "andare in canna" perché la Fiat, nel frattempo, aveva pensato bene di mettere sul mercato la "500".
Anche Orio Vergani in quel "Quadernetto" del 1946 si diceva affascinato da questo "andare in canna".
"Ho sempre invidiato questi ‘Don Giovanni della canna’ e quella andatura a coppia, come una ripetizione del gruppo di Amore e Psiche di Canova. Non li ho invidiati per il fuggevole contatto, ma per le parole che essi, pensavo, potevano dolcemente mormorare all’orecchio delle pulzelle tratte così in canna, quasi appoggiate con l’orecchio alla loro bocca. Li vedevo passare un po’ rossi per lo sforzo, ma ostentando sorrisi d’estasi. Ho saputo solo più tardi, attraverso le confidenze di uno sincero, che le parole strettamente confidenziali pronunciate in queste felici occasioni erano normalmente queste: "Non si attacchi al manubrio, prego …. Non tocchi col piede la ruota …. Non si volti così bruscamente, altrimenti rotoliamo in terra …. ".
1 maggio 2005