Follìe dietro motori

 

Giuseppe Ambrosini nel suo "Prendi la bicicletta e vai", unico manualetto per l’aspirante ciclista da corsa degli anni ’50 e ’60, magnificava l’importanza dell’esercizio "dietro allenatore meccanico", in parole povere "dietro motori".

Questa teoria era pienamente sposata dalla gran parte dei tecnici di alto lignaggio e non, dei diesse nobili e plebei, dei soloni, dei teorici, dei praticoni.

Era quindi molto frequente incontrare lungo le strade, infinitamente meno trafficate di oggi, ragazzotti truccati da corsa nella scia di ciclomotori, motorini, motoleggere, motopesanti, auto, camion.

Era indubbiamente pericoloso ma estremamente stimolante. Andavi via col tuo passo, trenta all’ora circa, poi, quando ti vedevi superare da un veicolo sui cinquanta, mettevi il rapporto lungo, operavi uno scatto da velocista, entravi in scia ed era fatta. Dopo, al riparo dal vento, non era difficoltoso stare a ruota sviluppando ragguardevoli velocità, uno sguardo alla strada ed uno alla targa del tuo improvvisato allenatore. Quando poi questi decideva, andando per i fatti suoi, di abbandonare il tuo percorso, ti ritrovare a zampettare sui pedali contro un muro d’aria. Smanettavi sul cambio alla ricerca di un rapporto più umano e tornavi di lì a poco alla modestia dei tuoi trenta all’ora.

Si erano formate varie correnti di pensiero quale fosse il veicolo più aderente alle necessità di allenamento del ragazzotto da corsa. La "bicimotore", così fu chiamato inizialmente il ciclomotore, il Mosquito per intenderci, andava troppo piano. Il "Guzzino" aveva la velocità giusta però riparava poco dall’aria. Vespa e Lambretta, con sacche e paragambe, andavano benissimo dal punto di vista della protezione dall’aria ma serviva un posapiano alla guida. Le motociclette più grosse avevano il difetto di essere solitamente guidate da persone che avevano adorato Omobono Tenni e Tazio Nuvolari prima maniera.

Quasi tutti i teorici convennero, però, che la palma del motociclo più adatto spettasse al Motom: velocità giusta e piloti, statisticamente, spediti ma senza eccessive manie velocistiche, magari un po’ grassottelli, il che non guastava, sempre per via della protezione dall’aria.

Il Motom, effettivamente, era il più richiesto ma, alla fine, ti accontentavi di quello che passava. Il problema vero era che non tutti gradivano di essere inopinatamente arruolati con la qualifica di "allenatore meccanico". Qualcuno ti lanciava improperi, un altro ti faceva una ramanzina sulla pericolosità, i più aprivano il gas e ti lasciavano zampettare suoi pedali con la lingua fuori.

L’ideale era avere un amico che si prestasse. A Milano avevo trovato Lino che, obtorto collo, mi consentiva di allenarmi sulla Rivoltana dietro il suo Iso scooter blu verniciato a pennello. E lì andavo sul velluto.

Anche a Langhirano, durante le vacanze estive a casa di nonna Adele, ogni tanto trovavo qualcuno disponibile.

Una volta lo stesso Lino, venuto a trovarmi con una vecchia Benelli 250 di quinta mano, mi consentì di stabilire un record …. storico: Langhirano-Parma, venti chilometri, venti minuti, sessanta all’ora.

Un altro di questi allenatori accondiscendenti era Don Renato. Don Renato era il coadiutore della Parrocchia ed era un prete speciale, moderno, estroverso, bizzarro. Oddio, qualche critica si sentiva in giro e forse anche il Parroco non gradiva appieno il suo comportamento, ma per noi ragazzi era un idolo. L’oratorio non era mai stato così frequentato. Stava molto tempo con noi, giocava con noi, era bravo a calciobalilla. Un po’ più trasgressivo si dimostrava quando andavamo assieme a rubare le ciliegie o quando, per concedersi un bagno in compagnia nel torrente, indossava un pudicissimo pigiama a righe.

Don Renato aveva un Motom. Dietro i suoi occhialini da miope nascondeva una mal repressa passione per la velocità. Insomma, malgrado la tonaca, andava sempre a "manetta".

Si prestò alcune volte a farmi da "allenatore meccanico" e si divertiva molto a "tirarmi il collo".

Un giorno, mentre stavo chiacchierando con un amico davanti a casa di mia nonna, passò sul suo Motom a tutto gas. Il motore grippò, sentimmo il rumore di una forte "inchiodata" e vedemmo il motorino per terra ed un fagotto nero che rotolava sull’asfalto. Come un misirizzi balzò in piedi, raccolse gli occhiali e tornò verso la canonica azionando i pedali. Da quel giorno non mi fidai più a mettermi nella sua scia. Poco tempo dopo Don Renato divenne parroco in un paesino sperduto sull’Appennino. Ogni tanto scendeva a valle. Guidava una vecchia Jeep e portava un casco coloniale.

Ma torniamo ai nostri allenamenti dietro motori. Agli allenamenti dietro camion. Il camion era una cosa meravigliosa. Se aveva la velocità giusta, cinquanta-sessanta all’ora, era stupendo. Sviluppavi grandi velocità senza fare fatica, senza sudare. Anzi, sudando moltissimo perché l’assoluta mancanza di ventilazione ti faceva sudare come una fontana. Stavi generalmente sul lato sinistro, a un metro o forse meno dalla targa, in modo da spostarti ogni tanto verso il centro strada, quanto bastava per controllare la situazione.

Un giorno, tornando da Parma a Langhirano, mi sorpassò un camion "giusto". La velocità era quella giusta e la guida era regolare, il traffico scarsissimo. Innestai il 49x16, feci uno sprint e mi misi in scia. Era bellissimo!

Il camion era stracarico "a balestra dritta" di casse piene di pomodori destinati ad una fabbrica di conserva. Pedalavo in un inebriante odore di pomodori con contorno di gas di scarico. La mancanza del telone lasciava che paglia, foglie, rametti e bruscolini mi investissero. Quando arrivai a casa la mia maglia da ciclista, a quei tempi obbligatoriamente di lana, sembrava essere uscita da una mietitrebbia. Ero sudatissimo, sporco e puzzavo. Puzzavo di sudore ma ancor più di pomodoro. Nonna Adele mi disse: "Mo co’ et faat? T’sì caschè in un muc d’ tomàchi? (Ma cosa hai fatto? Sei caduto in un mucchio di pomodori?".

 

 

2 giugno 2005