Lo scopaio di Monsummano

 

C’era una volta …. C’era una volta un omino tutto pelle e ossa che faceva le scope in un paese chiamato Monsummano.

Un bel giorno l’omino, pur continuando a fare lo scopaio, decise di provare a correre in bicicletta ….

Così potrebbe iniziare la favola di Ezio Cecchi, classe 1913, nativo di Castelmartini di Larciano in provincia di Pistoia ma residente a Monsummano, dove viveva fabbricando scope.

Nel 1935 passò professionista con la Gloria di papà Focesi e con i colori grigio-blu corse fino al 1941, quando la guerra entrò nel periodo più tragico. Riprese a correre nel 1946 con la Ricci, poi un anno alla Welter e gli ultimi tre alla Cimatti. Ha vinto poco, pochissimo: solo due corse di secondo piano in una carriera lunga sedici anni. Però era un corridore tosto il Cecchi.

Piccolo di statura, magro, tutto nervi, era chiamato da tutti " il Cecchino" un po’ per il fisico e un po’ per il suo modo garibaldino di interpretare le corse. Negato allo sprint, si difendeva bene in salita e nelle corse a tappe; ha partecipato a undici Giri d’Italia finendoli tutti con buoni piazzamenti, tra i quali due secondi posti: nel 1938 dietro Valetti, anno in cui Bartali non partecipò perché il regime gli aveva ordinato di vincere il Tour, e nel 1948 dietro Magni, anno del ritiro di Coppi e della Bianchi per protestare contro le spinte ricevute in salita dal campione toscano-monzese.

Il grande giorno di gloria dello scopaio di Monsummano fu però il 19 marzo 1947, giorno della Milano-Sanremo.

Quella Sanremo si presentava quanto mai aperta, insolitamente senza "padroni". Alla vigilia correva voce che Coppi, il grande dominatore dell’edizione 1946, avesse dei problemi. Alcuni parlavano di una fastidiosa congiuntivite, altri attribuivano il cattivo stato di forma ai troppi sforzi fatti durante l’inverno, passato in giro per i velodromi di tutta Europa a racimolare quattrini.

D’altra parte, Bartali, l’altro "sceriffo" del gruppo, era sempre più considerato vecchio. Giuseppe Ambrosini, presentando la corsa al sole (che di sole quell’anno non ne avrebbe proprio visto) scrisse:" Il tema che la sua presenza pone sul tappeto è: fin quando durerà la sua giovinezza atletica?".

Inoltre bisogna dire che il vecchio Gino, pochi giorni prima , era stato costretto a letto per un forte attacco influenzale.

Fausto e Gino con le loro squadre alloggiavano abitualmente all’Hotel Andreola in via Scarlatti, a cento metri dalla Stazione Centrale. La sera della vigilia Coppi cenò e si chiuse in camera mentre Bartali, certo che il rivale fosse ormai fuori gioco, decise con il suo direttore sportivo Eberardo Pavesi che avrebbe preso regolarmente il via ma, dopo un centinaio di chilometri, si sarebbe ritirato. Una automobile della Legnano l’avrebbe atteso nel luogo stabilito per portarlo a casa. Questo "non vinco io ma non vince nemmeno lui" rasserenò l’animo di Gino il quale, seduti ai tavolini dell’albergo, incontrò Serse Coppi e Luigi Casola, gregari di Fausto. Gino era amico di Serse, stava volentieri con lui perché lo trovava molto diverso dal fratello. Serse era sempre allegro, chiacchierava volentieri, stava agli scherzi, era pronto alla battuta. L’altro, Casola, era un vero e proprio mattacchione. La compagnia era quindi davvero piacevole ed il tempo passava veloce. Qualche maligno avrebbe detto poi che i due della Bianchi si trovavano lì su ordine di Fausto per far sì che Gino andasse a letto tardi. Mah! Di certo, dopo un po’, i tre decisero di andare al cinema: a qualche centinaio di metri, all’Impero di via Vitruvio, davano un filmone, "Sangue e Arena" con Rita Hayworth e Tyrone Power. Per completare l’opera, al ritorno dal cinema, decisero di farsi una bella spaghettata.

La mattina seguente, alla partenza, pioveva a dirotto: un tempo da lupi! Era buio. Coppi, nonostante ciò, portava gli occhiali da sole: forse era proprio congiuntivite. Il suo patron Zambrini l’avrebbe poi fatto ritirare nella discesa del Turchino per paura che finisse in un burrone. Bartali non vedeva l’ora di fare i cento chilometri pattuiti con Pavesi per infilarsi in macchina.

Pronti, via! Dopo qualche chilometro vanno in fuga una quindicina di corridori tra cui Toccaceli, Renzo Zanazzi, il velocista Oreste Conte, Pasotti da Bastida Pancarana, Vincenzo Rossello, Leoni, lo svizzero Croci-Torti e Cecchi, lo scopaio di Monsumanno.

Sul Turchino nevica e il Cecchino stacca tutti tranne il compagno di squadra Bellini, che, stremato, alzerà bandiera bianca prima di Varazze.

Da Varazze, sede abituale degli allenamenti invernali di Coppi, Cecchi passa solo con più di 2’ di vantaggio. Dietro di lui la corsa è una pentola in ebollizione: gruppi, gruppetti, corridori sparpagliati.

La strada verso Sanremo è ancora lunga, tanto lunga, ma il Cecchino pigia sui pedali. Non è elegante, è stortignaccolo in bicicletta ma la sua azione, tutta nervi, rende eccome.

E gli altri? Coppi, come detto, si è ritirato. I più immediati inseguitori non trovano l’accordo. Che sia fatta?

E Bartali? Gino è in un gruppetto a 7’. Ha smoccolato, nei limiti consentiti ad un terziario francescano, perché al centesimo chilometro dell’auto della Legnano non c’era nemmeno l’ombra. Pavesi gli ha spergiurato che si è trattato di un disguido ma Gino sa perfettamente che quel diavolo di "avocatt" l’ha fregato. E così è ancora in corsa suo malgrado.

Acqua sulla strada, acqua dal cielo, acqua dal mare. Alti cavalloni battono gli scogli lanciando spruzzi sulla litoranea. Cecchi pedala, pedala e pensa, pensa alle scope, a casa, alla vittoria, alla gloria, ai soldi, ai debiti da pagare. La sua maglia viola e bianca della Welter è color fango e, zuppa com’è, pesa, pesa in maniera insopportabile. Pedala, Cecchino, pedala e non pensare più! Si fa fatica anche a pensare.

La pioggia intanto comincia a provocare su Bartali una sorta di benefico massaggio. Ogni goccia gli procura come una scarica di energia. Rassegnato ormai a finire la corsa, il vecchiaccio, sente che le gambe hanno preso a girare a meraviglia. Insegue, raggiunge vari gruppetti e li stacca in un amen. Prima del Capo Berta raggiunge e stacca Ortelli, i fratelli Maggini e Bizzi, il morino di Livorno, eterno avversario di tante battaglie. Ora davanti c’è solo Cecchi.

Prima di Imperia Gino vede la coda delle auto che seguono il battistrada. Poco dopo comincia a scorgerne la sagoma ingobbita.

Mentre guadagna terreno una marea di pensieri gli passa per la testa: "Eccolo là. Mi spiace povero Cecchino, l’è toscano come me. L’è’ figlio, anche lui, di povera gente. Sai quanto vale una Sanremo per lui? E adesso che fo’? L’è veramente ‘n bel problema. Se lo aspetto e vado via con lui, lo batto di sicuro in volata tanto lui allo sprint l’è veloce come ‘n paracarro. Sì, però se per aspettarlo quelli dietro ci prendono e perdo la Sanremo ci fo’ ‘na bella figura da bischero. Eh, no. E se anche non ci riprendono ma io foro? O mi salta la catena? Vince il Cecchino e io resto sempre ‘n bischero. No, no, lo stacco subito e senza sta’ a pensarci più. Ovvia, vado per i trentatre anni e questa può essere l’ultima occasione per vincere ‘na Sanremo. Sì, sì, lo stacco subito …. e speriamo che arrivi almeno secondo".

Eccolo! Il Cecchino è ormai lì a pochi metri. Gino lo supera in tromba sulla sinistra. Fingendo un improbabile interesse per il mare in burrasca, volge lo sguardo a sinistra come per osservare i cavalloni che lanciano spruzzi sulla litoranea. Non ha il coraggio di guardare in faccia il Cecchino che, rassegnato, lo lascia passare, abbassa la testa sul manubrio senza avere la forza di seguirlo nemmeno con lo sguardo.

Gino arriva solo a Sanremo. Gioisce ma la sua gioia è completa solo dopo 3’57", quando vede arrivare Cecchi che è riuscito a mantenere la seconda posizione.

Su "L’Equipe" il grande Jacques Goddet scriverà:" Una corsa diabolica vinta da una divinità:Bartali".

Dopo la divinità, il secondo posto dello scopaio di Monsummano vale una carriera.

 

 

24 giugno 2005