Il Giro d’Italia di zia Palmira

 

Estate 1951. Avevo appena terminato la seconda elementare e stavo passando le vacanze da nonna Adele a Langhirano. Un giorno la nonna decise che saremmo andati da una sua sorella, zia Palmira, per la sagra. Zia Palmira, vedova da diversi anni, coltivava, con i suoi non so più quanti figli, un podere dalle parti di Fidenza.

Partimmo la vigilia del giorno di sagra e il viaggio mi parve lunghissimo: vecchia corriera azzurra della Sorit da Langhirano a Parma, analoga corriera da Parma a Fidenza, moderno e luccicante pullman sulla linea Fidenza- Salsomaggiore. Quest’ultimo mezzo mi piaceva moltissimo ma, alla seconda fermata, Lodesana, scendemmo. La fermata era in piena campagna, ad un incrocio. Pareva proprio una di quelle desolate fermate d’autobus che si vedono spesso nei film americani. Abbandonammo l’asfalto e, sotto un sole cocente, imboccammo una ripida stradina senza asfalto, polverosa e disseminata di sassi. Nonna Adele, con il suo abito blu scuro della festa, portava una grossa borsa e si proteggeva dal sole con un ombrello. Malgrado l’età, camminava svelta lungo la salita o, forse, le mie gambe erano ancora troppo corte?

Anch’io avevo i calzoncini belli, grigi, retti dalle bretelle sopra una elegante camicia bianca. A una delle asole di destra delle bretelle ciondolava un portachiavi con la figura in rilievo di Bartali, con tanto di cappellino da ciclista e naso grifagno.

La casa di zia Palmira era proprio in cima alla collina, alla fine della strada. Quando arrivammo, le scarpe con mezzo tacco, nere, di nonna Adele erano completamente bianche di polvere, così come i miei sandali, all’interno dei quali i piedi, senza calze, erano orrendamente impastati di polvere e sudore.

Zia Palmira corse fuori seguita da uno stuolo di figli e nipoti. Portava un grembiulone nero e l’immancabile fazzoletto in testa. Dopo un attimo, dalla stradina sterrata, arrivò, ansimante, una vecchia Balilla dalla quale scese Alcide, il figlio più grande di zia Palmira. Accidenti! Fosse arrivato prima ci avrebbe raccolto per strada evitandoci quella scarpinata. E poi mi sarebbe piaciuto tanto andare in macchina!

Alcide, che tutti chiamavano Cide, era albino. Non avevo mai visto un albino prima di allora.

La sera cenammo in una grande stanza con un tavolo lunghissimo e tanta gente che vedevo per la prima volta.

Un paio di ragazzine servirono patate per tutti. Poco dopo, sparecchiarono. La cena era tutta lì.

"Ma non c’è altro?" azzardai . Nonna Adele mi diede un calcio sotto il tavolo e mi zittì.

Al calcio di mia nonna alzai lo sguardo mordendomi le labbra e …. e rimasi senza fiato. Rimasi senza fiato non per il calcio, che non era stato affatto forte, ma perché lassù, in alto, appesa al muro, avevo visto una cosa meravigliosa: il gioco del Giro d’Italia!

Era una specie di gioco dell’oca, dove le varie figure all’interno delle caselle numerate rappresentavano il Giro d’Italia del 1950, quello vinto da Koblet. Si giocava con i dadi. Casella numero 1: partenza da Milano; casella 11: foratura, ti fermi un giro; 19: traino da autocarro, penalizzazione, torni al 7; 23: riposo a Locarno, ti fermi un giro; 47: ospedale, sei costretto al ritiro; 56: traguardo con abbuono, guadagni un tiro; 64: arrivo finale a Roma e trionfo. Era stupendo.

"Guarda, nonna, che bello! Il gioco del Giro d’Italia". Un secondo calcio mi zittì nuovamente. Per tutta la sera non riuscii comunque a distaccare lo sguardo dalla parete. Il gioco era stato messo sotto vetro e contornato di nastro adesivo in modo da formare uno di quei quadretti che venivano chiamati "all’inglese".

E il giorno dopo fu sagra: tutti a tavola da mezzogiorno a sera per un pranzo ricco di ogni ben di Dio. Dal giorno dopo si sarebbe tornati a mangiare patate.

I bambini vennero posti in fondo alla tavolata e io mi trovai di nuovo faccia faccia con l’oggetto del desiderio.

Confinavo con la zona degli adulti. Nonna Adele era più in là, accanto a zia Palmira, e il mio vicino era Cide, l’albino.

Ad un certo punto, Cide mi chiese se volevo un po’ di vino. Accettai, anche se di vino non ne avevo mai bevuto in vita mia. Cide mi versò mezzo bicchiere di Fortana che trangugiai in un colpo solo fissando, sul muro, il solito quadretto. Sentivo uno strano senso di benessere, mi girava un po’ la testa ma la sensazione era piacevole. Cide mi versò ancora vino, una, due …. quante volte? Ormai andavo in automatico: come Cide versava io bevevo.

Ricordo le parole di un uomo lì vicino:" Oh, al bèva col garzòn lì (Oh, beve quel ragazzo lì)".

Da lì in poi ricordo ben poco. Stavo male. Devo essere stato male per ore perché mi ricordo una enorme luna piena sull’aia mentre mi lamentavo appoggiato a nonna Adele. Ogni tanto ripensavo al gioco del Giro d’Italia ma anche questo mi risultava faticoso.

Ad un certo punto zia Palmira portò una grossa tazza di caffè: "Bèva ch’al t’fa ben (bevi che ti fa bene)".

Era caffè d’orzo ed aveva un incredibile sapore di liquirizia. Era orrendo. Il maledetto intruglio ebbe però il merito di farmi …. liberare. Mi parve di rinascere. Non bevvi più vino per anni.

La mattina dopo ci alzammo di buon’ora per tornare a casa. Ci sedemmo al solito tavolone per la colazione. Alzai lo sguardo e, con mio sommo dispiacere, il quadretto era sparito lasciando una evidente impronta sul muro.

Stavo ancora pensando alla misteriosa sparizione quando zia Palmira, che aveva capito tutto, appoggiò vicino alla scodella del mio caffelatte un cartoncino arrotolato: era lui! Abbracciai zia Palmira e baciai le profonde rughe del suo viso. Si era avverato un sogno.

Con il Giro d’Italia di zia Palmira giocai migliaia di volte, fino alla sua consunzione. Sul lato sinistro del tabellone erano stampate, all’interno di appositi cerchi, le figure di una quindicina di corridori, Coppi, Bartali, Magni, Robic, Koblet, Kubler …. Questi cerchi, una volta ritagliati, servivano come segnalini durante il gioco. Scoprii però che la loro dimensione era tale da poterli utilizzare anche inserendoli nei tappi corona. Ci giocai quindi sia per il Giro d’Italia con i dadi sia interminabili gare di "tollini".

Marzo 2003. Al Palasport di Monza viene allestita la mostra "100 anni di corsa", praticamente la storia di un secolo di ciclismo attraverso cento biciclette d’epoca e una infinità di foto storiche.

Il mio amico Gigi Bergamaschi ed io non possiamo non andare. Che meraviglia! Ci sono le bici di tanti campioni, da Petit Breton a Cipollini, cambi Vittoria, Simplex, Campagnolo a doppia leva e foto, foto notissime e foto che non avevo mai visto.

Ad un tratto mi blocco, fulminato. La’, su una parete bianca, contenuto da una sottile cornice di legno, c’è il Giro d’Italia di zia Palmira. Non c’è alcun dubbio, è proprio lui. Come fare per portarlo a casa? L’unica soluzione è una foto. Ne scatto quattro: non si sa mai. E così ritorno, in qualche modo, in possesso del Giro d’Italia di zia Palmira.

Peccato che manchino i cerchietti con le figure dei corridori! Evidentemente un altro ragazzino, più di mezzo secolo fa, aveva fatto quello che avevo fatto io.

 

 

10 luglio 2005