C’era una volta il Tour
Quando, domenica 24 luglio, ho visto Lance Armstrong salire per la settima volta sul gradino più alto del podio di Parigi confesso di avere tirato un sospiro di sollievo: finalmente si ritira!
Oddio, non vorrei essere frainteso. Mi tolgo tanto di cappello davanti alle imprese in terra di Francia del texano, ammiro quello che ha saputo fare, come si è organizzato, come ha fatto tesoro degli insegnamenti ricavati studiando Miguelon Indurain, dall’uso del "rapportino", del quale è diventato maestro, all’organizzazione di squadra che è riuscito a far diventare perfetta, direi quasi cinica.
Però, permettetemi, spero che, uscito di scena il despota, i prossimi Tour possano essere più combattuti e quindi più avvincenti per gli appassionati di ciclismo.
Se andiamo ad analizzare le ultime quindici edizioni della "grande boucle" troviamo cinque vittorie di Indurain , sette di Armstrong e una ciascuno per Riis, Ullrich e Pantani. In quindici anni, se non avessimo avuto le imprese, un po’ contraddittorie come il suo carattere, di Gianni Bugno, le mattate di Calimero Chiappucci e, soprattutto, i numeri in salita del Pirata sarebbero stati quindici anni di noia mortale.
Poi ci si è messo anche l’ineffabile monsieur Leblanc con le sue trovate. A parte il mio odio personale per le tappe a cronometro troppo lunghe, che condizionano eccessivamente il risultato finale, chi mi sa spiegare il significato, in una corsa individuale, della cronometro a squadre, che costringe i diesse a schierare uno o due passistoni in più rinunciando, magari, a qualche uomo che sarebbe più utile nel contesto generale della corsa? E poi, chi mi spiega cosa significa un Galibier a quaranta chilometri dal traguardo, oppure un Aubisque a sessanta? Tanto vale mettere un paio di quei cavalcavia che vengono spesso camuffati da gran premi della montagna.
Con percorsi del genere il nostro miglior Cunego non potrà mai vincere perché dovrebbe migliorare enormemente le sue prestazioni contro il tempo, oppure diventare più forte di Pantani in salita.
E poi, ancora, chi mi spiega perché le ultime grandi salite sono state affrontate una settimana prima della fine? Le corse a tappe sono come i libri gialli: il vincitore, come l’assassino, si scopre alla fine.
"E’ il Tour che fà grandi i corridori - dice Leblanc, dicono i francesi – e non il contrario".
Panzana più grande non fu mai detta: una lotta accanita tra Coppi e Bartali faceva diventare una grande corsa anche il circuito di Roccacannuccia. Quale grande corsa sarebbe mai stato il Tour del 1998, peraltro sommerso dagli scandali, senza le grandi imprese del miglior Pantani di sempre?
I nostri venticinque lettori, come ama chiamarli l’amico Gino Cervi, mi perdoneranno questo sfogo ma non potevo proprio farne a meno, come non posso fare a meno di andare indietro nel tempo e ricordare i Tour di un passato che, purtroppo, si allontana sempre più.
Niente paura! Non voglio partire dal 1° luglio 1903 quando, dal Cafè Reveil Matin di Parigi, parte la prima edizione del Tour de France, organizzato dal giornale "L’Auto".
Mi piace invece ricordare quando il Tour vedeva schierate le squadre nazionali. Credo che quella formula, introdotta alla fine degli anni ’20, abbia contribuito in maniera enorme alla grande popolarità della corsa a tappe francese. Gli interessi pubblicitari dei gruppi sportivi posero fine alla fortunata formula dopo una trentina d’anni.
Tutto era molto semplice: Francia, Italia, Belgio, Svizzera, Spagna, Olanda e Lussemburgo presentavano la loro nazionale. A volte si aggiungevano Germania e Inghilterra e, all’inizio degli anni ’50, anche una rappresentativa del Nord Africa con il negrone Abdel Kader Zaaf. Per completare il quadro dei concorrenti venivano schierate quattro o cinque squadre francesi denominate "regionali" che potevano essere, di volta in volta, Ile de France, Nord-Est-Centro, Sud-Est, Ovest, Sud-Ovest, Parigi, Ovest-Sud-Ovest, Est-Sud-Est, e chi più ne ha più ne metta.
L’organizzazione forniva ad ogni squadra le maglie con i colori della bandiera, così i corridori italiani indossavano maglie verdi con fascia biancorossa sul petto, i francesi maglie blu con fascia biancorossa, gli svizzeri maglia rossa con una grande croce bianca e così via. Erano le classiche maglie di lana di quei tempi con tre tasche sulla schiena e due tasconi sul petto. Sul bordo dei tasconi anteriori veniva cucito un rettangolo di stoffa di dimensioni appena sufficienti per contenere, ricamato, il nome della squadra di appartenenza: Bianchi, Legnano, Ganna, ecc. Fino alla metà degli anni ’50 le squadre facevano tutte capo a ditte che producevano biciclette. Dal 1954, con Fiorenzo Magni promotore, sorsero i gruppi sportivi extra-ciclistici e nacque la diatriba con gli organizzatori francesi che pretendevano che sul famoso rettangolino fosse scritto solo il nome del costruttore della bicicletta. Dopo lunghe trattative si giunse ad un accordo: il nome del costruttore della bicicletta sarebbe stato scritto in grande e nella parte superiore e, sotto, in piccolo, il nome del gruppo sportivo.
Anche in questo campo gli organizzatori francesi erano stati assai refrattari ad accettare le novità come, d’altronde, se andiamo a cercare nel passato, scopriamo che, negli anni ’30, non consentirono, per qualche edizione, l’uso del cambio di velocità che era appena stato inventato.
A parte queste stranezze organizzative, l’idea di un Tour per squadre nazionali fu veramente eccezionale.
Il nostro cittì, Alfredo Binda, non ebbe difficoltà a formare la nazionale nel 1948 perchè l’abulico Coppi, dopo il polemico ritiro dal Giro, rimandò il suo esordio al Tour e il trentaquattrenne Bartali divenne capitano unico. Dal 1949 in poi il grande Alfredo ne ebbe di gatte da pelare con quei due galli nel pollaio! Indubbiamente fu bravissimo se dal 1948 al 1952 riuscì a portare a casa ben tre maglie gialle, che, forse, avrebbero potuto essere quattro senza i fattacci dell’Aspin del 1950.
Il Tour è sempre stato durissimo, torrido e faticosissimo. A quei tempi era ancora più duro a causa delle strade.
Asfalto liquefatto dal caldo, strade sterrate, sudore, polvere, sete e cotte, cotte spaventose. Anche corridori di grosso spessore andarono in crisi. Louison Bobet, nel Tour del 1948, in piena crisi, fu addirittura spinto da Antonio Bevilacqua, gregario di Bartali. Anche il grande Fausto ne fu vittima nel 1949 e nel 1951; nel 1949 si riprese e vinse alla grande, nel 1951, anno della scomparsa di Serse, ci rimise la corsa.
Ci sono filmati che mostrano corridori sfatti dallo sforzo. Ne ho impresso nella memoria uno in cui il minuscolo Jean Robic, detto "Testa di vetro" per una grave caduta che lo aveva costretto all’uso del casco, saliva a zig zag, disegnando invisibili tornanti con gli occhi spenti, come in tranche.
E poi c’erano le cadute. Erano cadute spaventose. L’olandese Wim Van Est rotolò in un burrone per duecento metri; non si fece granchè ma dovettero recuperarlo con le corde. In un burrone finì anche l’elegante svizzero Hugo Koblet; dovette ritirarsi assieme al pettinino che portava sempre in tasca. Koblet era l’idolo delle donne e, nell’occasione, "Sport Illustrato" pubblicò una vignetta nella quale un angelo con il viso del bell’Hugo cadeva da una montagna mentre decine di donne piangevano strappandosi i capelli.
Anche Roger Rivière, stupendo passista francese, cadde in un burrone. Era il 1960, l’anno di Nencini. Per seguire lo spericolato Gastone in discesa Rivière finì fuori strada. Lì terminò la sua carriera e, in qualche modo, anche la sua vita.
Le mine vaganti di quei Tour erano i corridori cosiddetti "regionali". Questi, generalmente corridori di secondo piano, davano battaglia in continuazione per mettersi in evidenza; erano disposti a tutto pur di farsi notare.
Noi, ragazzini, che seguivamo le tappe incollati alla radio, avevamo imparato a conoscerli e ci piaceva sentire come venivano pronunciati i loro cognomi, così diversi da come erano scritti: c’era Marcel Queheille (Coei), Bernard Gauthier (Gotiè), Maurice Quentin (Chentèn), Adolphe Deledda (Deledà), Nello Lauredi (Loredì). Non sapevamo che Deledda, nato a Villa Minozzo di Reggio Emilia, e Lauredi, nato a Mulazzo di La Spezia, erano italiani naturalizzati francesi.
Però il nostro regionale preferito era Francis Siguenza, francese di Nimes, classe 1930. Di lui, oltre le frequenti fughe, amavamo la pronuncia del suo cognome: Sighensà.
Però il fuggitivo per antonomasia di quei tempi era Jean Forestier, nato a Lione nel 1930. Era l’uomo dalle fughe pazze. Era un buon corridore Forestier, ma amava le fughe solitarie. Pronti via e scattava. Riusciva ad avere vantaggi notevoli ma veniva raggiunto. Non riuscì mai ad arrivare solo al traguardo. Vinse comunque tre tappe: la Le Puy-Lione del 1954, la Bordeaux-Poitiers del 1955 e la Chalon sur Saone-St.Etienne del 1961, dove giunse primo con soli due secondi di vantaggio sul compagno di fuga Lach. Jean Forestier viene ricordato soprattutto per una sua trovata: andò in fuga in una tappa e raggiunse un vantaggio di oltre mezz’ora sul gruppo; la strada costeggiava per lunghi tratti il mare; ad un certo punto l’imprevedibile Jean si fermò, si spogliò e andò a farsi un bel bagno; si rivestì giusto in tempo per accodarsi al plotone.
Chissà che, fra qualche anno, in occasione della centesima edizione del Tour, i successori di monsiuer Leblanc non pensino di celebrare la ricorrenza con una edizione per squadre nazionali …. e, per una volta, al diavolo gli sponsor!
25 luglio 2005