Oggi non è giornata
Mercoledi 29 giugno 1960. La giornata dei santi Pietro e Paolo non è ancora una ex festività.
A Parma si corre il Trofeo Vattelapesca per allievi, organizzato dalla S.C. Amatori. Cento chilometri impegnativi con lo strappo del Poggio Diana prima di Salsomaggiore, la severa salita del Sant’Antonio, un lungo tuffo in discesa verso Fornovo e una ventina di chilometri di pianura prima dell’arrivo, posto a Parma in viale Mentana.
Credo di essere in buona forma. Da circa un mese, terminate le scuole, sono a Langhirano da nonna Adele e mi alleno come un professionista.
Ho fatto tutto per bene. Ho pranzato alle 11,30: spaghetti al pomodoro, petto di pollo e verdura cotta. Poi ho raggiunto Parma in bicicletta, venti chilometri in leggera, costante discesa in poco più di mezz’ora, tanto per fare la gamba.
Al raduno di partenza, in via della Repubblica, regna la solita confusione pre-gara. Il potente odore dell’olio canforato aleggia sulla zona. Mentre qualcuno dà una regolatina alla pressione delle gomme, altri si riversano sui viali adiacenti per un minimo di riscaldamento. C’è chi fissa il numero al telaio della bicicletta e chi si fà spillare il numero di tela sul retro della maglia.
Individuo subito la "Cinquecento" di papà che è arrivato da Milano per seguire la mia corsa.
"Hai un bel numero. – mi informa subito – Il 36, il numero caro a Coppi".
Sono le quattordici e il caldo è opprimente. Butto via il the che mi ha preparato nonna Adele ed entro nell’unico bar aperto della zona per fare riempire la borraccia di acqua fresca.
"Lascia qui la borraccia – mi dice il barista – Faccio due caffè poi te la riempio".
Torno fuori e trovo il mio diesse, Lello Sillari, che mi dà gli ultimi suggerimenti. Con un altro dirigente della Frassati seguirà la corsa a bordo della Cinquecento di papà. Meno male che rimane un posto libero. Non si sa mai.
Della Frassati siamo in tre. Oltre a me ci sono Mario Canetti e Germano Ferrari, un lungagnone che corre con occhiali dalle lenti spesse come fondi di bottiglia.
Torno al bar per riprendermi la borraccia piena, la rimetto nella gabbietta sul tubo traverso e mi guardo un po’ in giro.
Accidenti! Saremo in centocinquanta-duecento corridori. Bisognerà stare davanti. Vediamo un po’ chi c’è. Con il numero 1 ecco là Guatelli dell’Amatori, poi c’è il gruppo dell’Enicar, ci sono quelli della U.S. Italia, quelli del Montagna. I parmigiani ci sono tutti. Caspita! Ci sono anche corridori reggiani, modenesi, piacentini, mantovani, veronesi. C’è il cremonese Pedretti della Pievese Decordi, abilissimo finisseur, c’è soprattutto quell’armadio di Baracchini, potentissimo atleta di Aulla. Ehi, ma quello là è Bossi dell’Azzini di Milano! Cosa sarà venuto a fare in una gara dura come questa lui che è un velocista e, da esordiente, lottava quasi alla pari con Vanni Pettenella?
Sono le 14,20. Il direttore di corsa ci invita a prepararci per la marcia di trasferimento fino alla Crocetta, luogo in cui verrà dato il via. Mi metto il berrettino con la visiera sul coppino e poi calzo il casco. Ci muoviamo.
Passiamo davanti al Tardini e imbocchiamo viale Martiri della Libertà, lasciando sulla destra il Petitot. Dalle parti di Barriera Bixio, sento come uno scoppio e vedo volare via il tappo della borraccia: quel somaro del barista me l’ha riempita di acqua gasata. "La bomba! La bomba!" grida qualcuno sghignazzando.
Dopo avere costeggiato l’Ospedale Maggiore (ed avere fatto i debiti scongiuri) arriviamo alla Crocetta, estrema periferia ovest di Parma. Giusto il tempo di slacciare i fermapiedi, mettere piede a terra e subito viene abbassata la bandierina. Ventre a terra lungo la via Emilia. La strada è piana e liscia ma l’asfalto è ruvido. I tubolari fanno rumore, come un sordo lamento. Da Parma a Fidenza sono ventitre chilometri praticamente in rettilineo. Il caldo è insopportabile. Abbasso la cerniera della maglia. Devo stare davanti, nelle prime trenta posizioni. Più o meno ci sono. Ecco, poco più avanti, la gigantesca sagoma di Baracchini, alla sua ruota Pedretti che pare un pigmeo. Affianco Bossi che mi saluta con un cenno del capo.
Ho scelto di stare all’esterno del gruppo, sulla sinistra. E’ vero, sono meno riparato ma è più facile guadagnare posizioni. In centro o sulla destra bisogna risalire per vie interne, bisogna saper "limare", come si dice in gergo. Io non sono così abile: sfiorare gomiti e manubri non mi è molto congeniale. Preferisco stare a sinistra. Si controlla meglio la situazione. Basta prestare attenzione al lato destro e alle auto che le staffette hanno fatto fermare sul ciglio della strada.
Il lamento dei tubolari nel loro rotolare sull’asfalto è sovrastato ogni tanto dalle voci dei corridori. Si esprimono un po’ in italiano e molto nei vari dialetti. Attento! Co’ fèt, cornaciòn? (Cosa fai, grossa cornacchia?). Guarda! Slérgot! (Allargati!). Va pù fort, Enicar! (Aumenta l’andatura, corridore dell’Enicar!). Frena no, balabiott! (Non frenare, ballerino ignudo!). L’ultima imprecazione è chiaramente del Bossi. Chissà cosa avrà mai capito quel "balla biotto" che veste la maglia del Velo Club Reggio?
Si viaggia oltre i quaranta. Dove lo trovano il fiato per tutte quelle imprecazioni?
Lo trovano eccome! "Can del porco" spara ad alta voce uno con la maglia amaranto fasciata di gialloblù. E’ un veronese della S.C. Borgo Trento e il sibilo che ha preceduto l’imprecazione era l’avviso palese di una foratura.
Dopo meno di un chilometro, un’altra foratura. "Maledèt ti e cla …. d’ tò médra! (maledetto te e quella gentildonna di tua madre!)". Si ferma una maglia bianco-verde dell’Amatori.
Dopo qualche centinaio di metri fora anche Mario Canetti. Mario, che è ragazzo d’oratorio, si limita ad un "porco diavolo".
Come mai tutte queste forature? Non è che qualche buontempone si sia divertito a seminare degli "ercolino sempre in piedi"?
Poi, non fora più nessuno.
Sono sempre nelle prime trenta posizioni quando giungiamo alle porte di Fidenza. Fra poco volteremo a sinistra per Tabiano. Prima della curva il plotone si allunga un po’. Difendo la mia posizione. Ecco la curva. E’ stretta. Noooo! Mi stringono, mi chiudono, devo frenare. Perdo di colpo sessanta-settanta posizioni. Accidenti!
La strada verso Tabiano è molto più stretta della via Emilia. Non riesco ad andare avanti. Non si passa. Decido di attendere il Poggio Diana, tre chilometri di salita e due di discesa.
Alle prime rampe il gruppo si allunga e riesco a passare. Guadagno una ventina di posizioni e, in vetta, affianco Germano Ferrari, quello dagli occhiali spessi.
Giù a capofitto nella discesa verso Salso in lunghissima fila indiana. La discesa è piuttosto ripida e tortuosa. Ferrari si butta a capofitto. Non mi fido dei suoi occhiali e mi tengo a qualche metro di distanza.
In una stretta curva a sinistra cadono in tre e occupano tutta la sede stradale. Ferrrari – Li vede? Non li vede? Chi lo sa? – passa sopra la ruota di una bici a terra, resta in piedi e prosegue. E io? Che faccio? E’ l’istinto che decide per me: proprio a metà curva c’è un passo carraio con un cancello aperto e un viottolo in ghiaietto che conduce ad una villa. Vado dritto. Imbocco il viottolo, dopo avere controllato la sbandata con salto sul passo carraio. Freno con prudenza e mi fermo, in piedi, in un polverone indescrivibile.
Non c’è tempo per pensare al pericolo scampato. Torno sulla strada e, mentre i tre caduti si leccano le abrasioni e raddrizzano i manubri, mi lancio all’inseguimento.
Attraverso Salso come se si trattasse dello sprint finale alla Milano-Sanremo. Un vigile fischia a tutto spiano per bloccare il traffico ad un incrocio.
All’uscita della cittadina termale, vedo quattro corridori a un centinaio di metri. Tre sono della U.S.Italia, uno della Mantovani di Rovigo. Li raggiungo. Ci diamo qualche cambio regolare poi, su una breve rampa, mi metto a tirare. Mi giro e mi accorgo di averli staccati tutti. Oh, vado proprio forte! Insisto.
Un paio di chilometri prima dell’inizio della salita del Sant’Antonio, vedo, cento metri avanti, un gruppo nutrito. Non so se sia il primo o il secondo o il terzo, ma che importa? Basta che sia un gruppo.
Spingo forte e guadagno terreno. Sono quasi sotto. Il gruppo sparisce al di là di una curva a sinistra ma ormai penso che sia fatta. Entro a tutta nella curva. C’è del ghiaietto. Raddrizzo. Ormai non posso più piegare. Vado dritto. Per fortuna non c’è il fosso. Mi fermo, senza cadere, in un prato di erba medica.
Basta!. Oggi non è giornata.
Mi porto sul bordo della strada e attendo la Cinquecento di papà.
Passano diversi ritardatari e poi ecco la lunga teoria delle auto al seguito. Ecco, finalmente, la Cinquecento.
Ma cosa c’è sul tetto? La bici di Canetti. E questo sarebbe niente. Il fatto è che dentro la cinquecento, oltre papà, Lello Sillari e il dirigente della Frassati, c’è anche Canetti.
Dovremo tornare a Parma in cinque.
Eh, no. Oggi non è proprio giornata.
22 aprile 2006