Dall’avvelenamento di Bartali al volo dell’Airone

 

La stagione ciclistica 1949 vide al nastro di partenza ben ventidue squadre italiane. Era un numero elevato, mai registrato prima, che testimoniava il notevole interesse per lo sport del pedale.

La grande novità fu l’esordio di Bartali nelle vesti di industriale. L’enorme pubblicità, derivatagli dall’entusiasmante vittoria nel Tour de France dell’anno prima, aveva spinto Gino a "mettersi in proprio". Dopo tredici anni di successi lasciò la Legnano e formò la sua "Bartali": maglie gialle – naturalmente – con colletto e bordi delle maniche blu. Le biciclette erano gialle e venivano costruite dalla ditta Santamaria di Novi Ligure, praticamente a casa di Coppi.

La scelta operata dal campione toscano fu senza dubbio azzardata, per non dire errata. La Legnano, pur non avendo le possibilità finanziarie della Bianchi, era una marca solida che avrebbe potuto mettere in campo una squadra di tutto rispetto. Alla neonata Bartali, invece, i quattrini non erano molti e, per fare quadrare i conti, Gino fece accordi con varie ditte di componentistica non sulla base di valutazioni tecniche ma prettamente economiche. L’esempio più evidente fu l’adozione del cambio Cervino anziché del Campagnolo o del Simplex.

Il cambio Cervino era la modernizzazione del vecchio Vittoria Margherita, datato anni trenta. Si cambiava pedalando in avanti – e questo poteva essere un vantaggio rispetto al Campagnolo – però occorreva allentare e poi rimettere in posizione il tenditore che era ancora, praticamente, quello di vent’anni prima, con tutti i problemi di sempre. Per effettuare la manovra occorreva intervenire tre volte su due levette coassiali montate sul tubo traverso. I maligni sostenevano che il Cervino era un cambio che solo Bartali sapeva usare. In effetti, bisogna riconoscere che tutti i guai meccanici, portati da Gino a scusante di alcune sue sconfitte, se li era voluti lui.

Si giunse così al Giro d’Italia.

Le corse rosa dei tre anni precedenti erano state criticate da tutti perché i percorsi erano considerati troppo facili e lo strapotere dei due campioni governava la corsa, sicchè la vittoria veniva giocata in una o due tappe, quelle dolomitiche. Le Dolomiti erano state inserite per la prima volta nel 1937, tappa Vittorio Veneto-Merano, e a Bartali bastò il passo Rolle per rifilare sei minuti a Valetti e aggiudicarsi il Giro. Negli anni successivi i "monti pallidi" furono sempre importantissimi nella storia della corsa, anche nel contestatissimo Giro del 1948 vinto da Fiorenzo Magni.

Gli organizzatori, messi sotto pressione dalle critiche e dalle polemiche dell’anno precedente, "scoprirono l’acqua calda": le Alpi. Copiarono il Tour e, dopo il tappone dolomitico, inserirono anche il tappone alpino, prendendo in prestito un paio di salite francesi immortalate da Bartali nel 1948, il Vars e l’Izoard.

L’altra novità introdotta per vivacizzare la corsa, soprattutto nelle tappe meno impegnative, furono le "tappe volanti", traguardi intermedi con un minuto di abbuono in palio.

Il Giro partì da Palermo il 21 maggio dopo che il vecchio Gino aveva subito il primo brutto colpo. La nuova Bartali aveva stipulato un accordo per il quale lo svizzero Ferdy Kubler avrebbe corso in Italia al fianco di Gino. Regolarmente iscritto, il bizzarro Ferdy non si presentò alla partenza e così la squadra partì da Palermo con soli sei uomini. A disposizione del vecchio capitano c’erano il fedelissimo Giovannino Corrieri, il tenace belga Leon Jomaux, il ligure Angelo Brignole, che aveva corso sporadicamente per la Legnano, il toscano Enzo Bellini, ex Welter e Cimatti, e l’alessandrino ventitreenne Mario Benso, al debutto tra i professionisti.

La squadra di Ginettaccio era decisamente più debole della Bianchi che, al fianco di Fausto, schierava il fratello Serse, l’esperto Bruno Pasquini, il veloce Oreste Conte, il promettente monzese Fiorenzo Crippa e due solidissimi debuttanti, Andrea Carrea ed Ettore Milano, cresciuti e forgiati da Biagio Cavanna tra i dilettanti della S.I.O.F. di Pozzolo Formigaro.

La vittoria finale era più che mai una questione tra Bartali e Coppi, anche perché i due più accreditati rivali, Magni ed Ortelli, furono costretti a dare forfait. L’Atala, orfana di Ortelli, affidò le sue speranze a Toni Bevilacqua e a Guido De Santi, un triestino estremamente combattivo che spesso faceva saltare la mosca al naso di Coppi. Nella Wilier Triestina, il posto di Magni fu preso da Sante Carollo che, partito senza una adeguata preparazione, non trovò niente di meglio che contendere, con successo, la maglia nera a sua maestà Luigi Malabrocca.

Nella prima tappa, Palermo-Catania, giunse la seconda tegola sul capo di Bartali. Faceva molto caldo e Gino accettò una bevanda da uno spettatore. Poco dopo cominciò a sentirsi male: vomito e giramenti di testa. Giunse al traguardo dopo avere rischiato il ritiro.

Si parlò di avvelenamento. Qualcuno ipotizzò che i mandanti fossero un gruppo di persone che gestiva un giro di scommesse clandestine. Una versione molto più suggestiva voleva che ci fosse stato addirittura l’ordine di Salvatore Giuliano, il celebre bandito di Montelepre, tifosissimo di Coppi. Chissà che lo spettatore che passò la bevanda a Gino non fosse Gaspare Pisciotta!

Comunque sia, mentre i vari Mario Fazio, Giordano Cottur e Adolfo Leoni si contendevano la maglia rosa dannandosi sui traguardi delle "tappe volanti", Bartali fu costretto per alcuni giorni a correre sulla difensiva, ingrugnato e taciturno come non mai. Era un Bartali strano, diverso dal solito, tanto che se ne accorse anche Dino Buzzati che, dopo la tappa Cosenza-Salerno, scrisse un articolo dal titolo "Né Coppi né Bartali si sono fermati a Eboli". Era una specie di lettera aperta ai due campioni che iniziava così: "Caro Coppi, egregio signor Bartali (e scrivo così perché Bartali mi dà una certa soggezione, pedala accigliato e in giro non lo si vede mai, neppure nell’atrio e nei corridoi del suo albergo; ieri mattina, per esempio, durante la traversata in ferribotto da Messina a Villa San Giovanni, tutti i corridori erano per così dire allo scoperto, ben visibili e avvicinabili dai passeggeri, tutti tranne Bartali e ancora mi domando dove diavolo potesse essersi nascosto). Caro Coppi ed egregio signor Bartali, dunque …".

La corsa risalì la penisola e giunse a Udine dove Adolfo Leoni indossò la maglia rosa strappandola al siciliano Mario Fazio. Il bell’Adolfo era praticamente il "Cipollini" degli anni quaranta, un velocista. Con la partenza di Bartali dalla Legnano, si era trovato, a trentadue anni, a vestire, per la prima volta, i panni del capitano e lo fece in maniera sorprendente. A Bolzano, dopo il tappone dolomitico, Leoni era ancora in rosa davanti a Coppi e Bartali. Restò in testa per altri cinque giorni poi ci fu la Cuneo-Pinerolo.

La Cuneo-Pinerolo fu, probabilmente, quanto di più affascinante si possa mai immaginare in campo ciclistico.

Gli organizzatori avevano copiato le grandi tappe di montagna del Tour: 254 chilometri con il colle della Maddalena, il Vars, l’Izoard, il Monginevro ed il Sestriere. Una tappa tremenda già sulla carta ma, poiché non bastano le salite a fare grandi le corse ma occorrono i corridori, a rendere indimenticabile quella tappa ci pensò Coppi con quella che, forse, resta la sua più grande impresa di sempre.

Il grande Fausto partì da solo sul primo colle, la Maddalena, a 190 chilometri dal traguardo. Cosa l’abbia spinto a fare ciò non si è mai riusciti a capirlo. Voglia di attaccare Bartali, notoriamente lento a carburare in partenza? Desiderio della grande impresa? Sulla "Checca", l’ammiraglia della Bianchi, il direttore sportivo Tragella, all’oscuro delle intenzioni di Coppi, restò allibito come tutti gli altri uomini dello staff. "Ches’ chi l’è mat".

Matto forse un po’ lo era, Fausto, quel giorno ma, dopo 190 chilometri di fuga solitaria, giunse sul traguardo di Pinerolo ed i distacchi furono misurati con l’orologio del campanile. Il trentacinquenne Bartali, mai domo, dopo avere polverizzato gli altri concorrenti, giunse secondo a 11’52", conferendo una maggior valenza all’enorme impresa del rivale. Si batterono al meglio Alfredo Martini, il vecchio Giordano Cottur ed il giovane e promettente Giancarlo Astrua. La maglia rosa Adolfo Leoni giunse a tre quarti d’ora.

Gli echi dell’epica impresa riempirono le pagine dei giornali e Dino Buzzati giunse a paragonare la Cuneo-Pinerolo ad una Iliade in cui Bartali aveva vestito i panni di Ettore e Coppi quelli di Achille.

Esagerazioni? Forse. Certo è che, in quella memorabile giornata, il grande Airone aveva definitivamente spiccato il volo.

 

 

21 maggio 2006