Quel pasticciaccio brutto dell’Aspin

 

Quando ci capita di interessarci di fatti o vicende del passato, scopriamo inevitabilmente che le verità sono sempre almeno due. Nel caso dei fattaci del Col d’Aspin del Tour de France 1950, le verità sono molte di più.

Anche se la storia è stata trattata un po’ in tutte le salse, vediamo se è possibile fare un quadro globale.

Dopo la straordinaria vittoria di Bartali nel 1948 e l’altrettanto straordinaria prestazione di Coppi nel 1949, il commissario tecnico Alfredo Binda poteva considerarsi in una botte di ferro: una nazionale italiana imperniata su Coppi e Bartali non poteva avere rivali in campo internazionale a patto che i due campioni trovassero il modo di andare d’accordo. Il grande Alfredo era riuscito a farli convivere nel 1949 ed era convinto di riuscirci ancor meglio nel 1950 perché ormai si era affermata la leadership del trentenne Coppi ed il vecchio, terribile Ginettaccio, che veleggiava verso i trentasei, si sarebbe dovuto ragionevolmente piegare ad un ruolo subalterno. Obtorto collo, Gino si sarebbe dovuto adeguare, anche perché, non facendolo, avrebbe perso in popolarità di fronte all’Italia intera.

Era tranquillo, Binda, e ne aveva ben d’onde: se, da un lato, Bartali aveva vinto incredibilmente la Milano-Sanremo, battendo in volata un gruppone compatto e zeppo dei migliori velocisti del mondo, dall’altro, Coppi si era imposto alla sua maniera nella Parigi-Roubaix, lasciando intravedere una forma paragonabile a quella del suo sensazionale 1949.

A rompere le uova nel paniere del cittì giunse la brutta caduta di Coppi a Primolano durante la nona tappa del Giro d’Italia. Frattura del bacino e addio Tour!

Il bastone del comando della squadra tricolore per il Giro di Francia passò quindi a Bartali che, al Giro, era stato battuto dallo svizzero Hugo Koblet solo in virtù del gioco degli abbuoni. "Gli è tutto sbagliato. – aveva certo brontolato il vecchiaccio – Gli è tutto da rifare".

La seconda punta della nostra nazionale era Fiorenzo Magni, strepitoso al Giro delle Fiandre ma non eccezionale al Giro d’Italia su di un percorso che, per altro, gli si addiceva parecchio.

Prima dell’inizio del Tour ci fu maretta tra Bartali ed il patron Jacques Goddet. E qui le versioni sono almeno un paio. Secondo alcuni Gino pretendeva, contro il regolamento della corsa francese, di portarsi al seguito il suo massaggiatore personale, Virginio Colombo. Secondo altri, invece, voleva che anche l’Italia, come Francia e Belgio, potesse schierare al via una squadra B, la cosiddetta squadra "cadetti". Il campione toscano minacciò di restarsene a casa.

Andò a finire che l’Italia schierò la sua squadra "cadetti" e che il massaggiatore Colombo dovette restarsene a casa. Gianni Brera asserirà poi che Colombo non restò a casa ma andò al Tour a prendersi cura, di nascosto, dei preziosi polpacci del suo campione.

Fu così che, il 13 luglio 1950, partirono da Parigi le due squadre italiane. La nazionale, nella tradizionale maglia biancorossoverde, era capitanata da Bartali e Magni e poteva contare su tre uomini della "Bartali": Angelo Brignole, Attilio Lambertini e l’indispensabile Giovannino Corrieri. Due erano gli "Atala", Guido De Santi e Luciano Pezzi; poi c’erano Virginio Salimbeni della Legnano, Serafino Biagioni della Bottecchia e Silvio Pedroni della Frejus.

I "cadetti", in maglia azzurra, schieravano sei uomini: Valerio Bonini e Alessandro Ghirardi della Benotto, Giulio Bresci e Alfredo Pasotti della Bottecchia, Remo Sabatini ed il velocissimo Adolfo Leoni della Legnano.

Il clima in quel Tour del 1950 non poteva certo essere idilliaco. I francesi non avevano ancora digerito le sonore batoste inflitte dagli italiani ai vari Bobet, Robic, Lazarides e compagnia cantante nei due anni precedenti. Non avevano digerito nemmeno le intemperanze dei tifosi italiani nella tappa Briancon-Aosta dell’anno prima, quella in cui Coppi conquistò la maglia gialla. Si dirà poi che, sotto sotto, c’erano anche motivi economici ed occupazionali in quanto, dopo le affermazioni italiane in terra di Francia nei due anni precedenti, l’industria ciclistica transalpina era in crisi perché tutti volevano acquistare biciclette italiane. Il discorso poteva essere valido per le esportazioni ma non credo per il mercato interno, conoscendo il nazionalismo dei francesi. Congetture. Quello che è certo è che tutte le altre squadre avrebbero corso contro di noi perché eravamo la squadra da battere.

Alfredo Binda, vista la situazione, mise in pratica una tattica …. catenacciara. In ogni fuga, in ogni attacco, entravano corridori italiani che non collaboravano, in modo da tenere la corsa più controllata possibile in attesa delle salite. Così facendo, nelle prime dieci tappe, ben cinque furono le vittorie italiane. Nella seconda tappa si impose in volata il "cadetto" Adolfo Leoni, davanti a Fiorenzo Magni; nella terza un altro "cadetto", Alfredo Pasotti batté un ristretto gruppo di fuggitivi; nella quinta Giovannino Corrieri bruciò in fotografia il compagno di fuga Desbats; nell’ottava fu la volta di Fiorenzo Magni e nella nona toccò di nuovo a Pasotti. Il "Pasottino" di Bastida Pancarana si impose sulla pista di Bordeaux dopo avere, per la verità, fatto la sua parte nella fuga decisiva.

Nello sport, maxime nel ciclismo, ogni tattica è rispettabilissima ma non la pensava così l’opinione pubblica francese, pungolata anche da una campagna di stampa decisamente anti italiana. I corridori italiani venivano definiti "succhiaruote" e si accusavano i "cadetti" di connivenza con la squadra nazionale, come se i "cadetti" francesi e le varie squadre regionali – scusate se è poco – non fossero disponibili a dare una mano alla nazionale biancorossoblù. Anche patron Goddet, piuttosto irresponsabilmente, scrisse alcuni articoli che infiammarono ulteriormente gli animi.

Malgrado tutto ciò Bartali e Magni giunsero ai piedi dei Pirenei in buona posizione di classifica.

I Pirenei vennero affrontati il 25 luglio da Pau a Sait Gaudens, 230 chilometri con le scalate dell’Aubisque, del Tourmalet e dell’Aspin, nell’ordine.

Robic, il piccolo bretone soprannominato "Testa di vetro", fece sognare i tifosi francesi con uno scriteriato attacco sulla prima salita. Il "Biquet" pagò lo sforzo e, nella discesa, venne raggiunto dal gruppetto dei migliori. Il francese Piot attaccò sul Tourmalet e Bartali si mise al suo inseguimento. Qui cominciò l’indegna gazzarra. I tifosi francesi inferociti cominciarono ad inveire, a dare manate. Volarono sputi. Gino lasciò andare Piot e, prudentemente, salì con Bobet e Ockers che, molto signorilmente, gli fecero da scudo.

Le cose precipitarono sul col d’Aspin. Piot fu raggiunto dal gruppetto dei migliori. Invettive, spintoni, sputi aumentarono di intensità Bobet, Ockers e lo stesso Robic, che era rientrato, difendevano Bartali, menando colpi di pompa a destra e a manca. Si racconta che lo stesso Goddet, salito su una moto, menasse fendenti con un ramo d’albero. Una bolgia.

Verso la vetta gli spettatori restringevano la sede stradale. Un’auto nera del seguito, per passare, sfiorò Gino che scartò, toccò Robic e finì a terra assieme al bretone. Fu un parapiglia. Volarono pugni, spinte, manrovesci. Qualcuno tentò di sottrarre la bici a Bartali, che raccontò poi di avere dato cazzotti a sua volta e di avere intravisto luccicare la lama di un coltello. Riagguantata la sua bicicletta, il vecchiaccio si buttò in discesa verso Saint Gaudens.

Quanto durò il fattaccio? Pochi secondi? Qualche minuto? Sicuramente fu una cosa breve ma non tanto da passare inosservata perché alcuni corridori attardati, tra i quali Magni, riuscirono a rientrare quasi subito lungo la discesa.

Goddet, per amor di patria, disse di non essersi accorto proprio di nulla. Il Patron mentiva sapendo di mentire.

Il gruppetto dei primi giunse così a Saint Gaudens; Magni che, fatti quattro conti, sapeva di essere la nuova maglia gialla, tirò la volata a Bartali che vinse con largo margine su Bobet, Ockers e gli altri.

Magni indossò la maglia gialla e poi salì in macchina con Bartali per andare all’albergo. Fiorenzo non si era accorto dell’accaduto e non si spiegava un Gino così taciturno. Poco dopo Bartali si rivolse al compagno più o meno con queste parole:"Te, tu, Fiorenzo, sei maglia gialla e hai diritto di fare quel che tu vuoi ma io domani vo a casa. Sono venuto qui per correre ‘n bicicletta mia pe’ fa’ la guerra. Ovvia! La guerra contro la Francia l’abbiamo già fatta e non ero punto d’accordo nemmeno l’altra volta".

Gli eventi precipitarono. Binda fu messo al corrente dell’intenzione di Bartali. Magni, in cuor suo sperava di continuare.

Goddet si precipitò all’albergo degli italiani per dissuaderli dal proposito; promise un maggior numero di poliziotti; giunse a proporre di fare correre gli italiani con una maglia anonima. Bartali si offese ancor di più. Maglia anonima a chi? La mettesse Goddet la maglia anonima! Binda telefonò in Italia al presidente Rodoni. A notte inoltrata giunse la decisione: tutti a casa!

Il giorno dopo i fotografi immortalarono Fiorenzo Magni mentre riponeva la maglia gialla in valigia e i cinegiornali ripresero Gino e gli altri mentre salivano su un vagone di seconda classe per tornare in Italia.

I giornali italiani diedero ampio spazio alla vicenda e tutti approvarono il fiero e responsabile comportamento dei corridori, di Binda, di Rodoni e dell’Unione Velocipedistica Italiana.

"La Domenica del Corriere" del 6 agosto 1950 propose in prima pagina un disegno di De Gaspari dalle tinte drammatiche: Bartali e Robic a terra, attorniati da uno stuolo di energumeni mentre una persona in giacca e cravatta cerca di sottrarre la bici di Gino.

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La didascalia recitava testualmente: "Il torto di essere bravi. L’aggressione, durante la prima tappa dei Pirenei al Giro di Francia, contro Gino Bartali, capo della squadra italiana, che sul colle d’Aspin è stato fatto cadere (nel capitombolo ha coinvolto il francese Robic) e percosso brutalmente da alcuni energumeni. Questo e altri episodi di faziosità, che hanno portato al ritiro dei nostri dalla gara, sono stati unanimemente deplorati anche da tutti i veri sportivi francesi".

Nel disegno è raffigurato anche un omaccione in canottiera. Ebbene, più tardi, si raccontò che, tornata la serenità, Bartali abbia incontrato l’omone in canottiera in occasione di un circuito in Francia. In quell’occasione, l’uomo, si sarebbe scusato asserendo che era un operaio di una industria di biciclette e che, come altri, era stato convinto che se avessero vinto gli italiani, loro sarebbero rimasti tutti disoccupati perché non si sarebbero vendute più biciclette francesi.

Ho già asserito di credere poco a questa teoria ed ancor meno credo all’omaccione in canottiera ai 1500 metri di altezza del Col d’Aspin, in una giornata fredda e piovosa.

Documenti specifici dell’aggressione non ne esistono, o furono opportunamente fatti sparire. Non ci sono filmati. Esiste solamente una foto di Robic, con la bicicletta a terra, mentre inveisce vigorosamente contro la folla inferocita.

Passarono gli anni, più di mezzo secolo, e la vicenda venne ripresa in esame un’infinità di volte. Ognuno volle raccontare la propria verità e si passò dall’approvazione incondizionata del ritiro, che trovò d’accordo la stragrande maggioranza della stampa a botta calda, al dubbio. Insomma, era stato giusto tornare a casa? La domanda divenne poi: perché Bartali volle tornare a casa? Qualcuno disse che Gino si era preso un grosso spavento e aveva paura. Ma è pensabile che l’uomo di ferro, l’uomo che non aveva avuto timori durante la guerra a portare documenti segreti, nascosti nel cannotto della sella, da Firenze ad Assisi, fosse rimasto tanto spaventato da un gruppo di facinorosi? Non era pensabile, no, se pensiamo che Gino, dopo l’8 settembre, non aveva tremato nemmeno quando fu portato al cospetto del terribile Mario Carità, spietatissimo maggiore dei repubblichini. Di timori ne avrà avuti, certo, ma penso che la sua decisione sia nata perché si sentiva terribilmente umiliato, profondamente offeso ed amareggiato: sono qui per correre in bicicletta e non per fare di nuovo la guerra alla Francia; in fondo, con le mie imprese, credo di avere dato tanto allo sport e non merito certo questo trattamento.

Gianni Brera minimizzò i fattacci dell’Aspin e, nel suo "Coppi e il diavolo", si espresse così: "Sull’Aspin quella parvenza di aggressione: perfino una vecchia sarebbe uscita dai ranghi brandendo un coltello; poi la macchina nera che avrebbe tentato di investire i‘Jino (balle) …..".

Della vecchia vestita di nero con il coltello in mano parlarono altri giornalisti che però la descrissero mentre rincorreva Magni. Fiorenzo non se ne accorse e non ne fece mai menzione.

Poi venne fuori il mistero della cistite. Bartali avrebbe affrontato il Tour, affetto da una fastidiosa cistite. Gian Paolo Ormezzano scrisse: "Bartali pisciava sangue e dovette per questo tornare a casa".

La teoria venne ripresa da Brera che, in "Incontri e invettive", si rivolse direttamente a Bartali: "Tu andasti al Tour nel 1950 e l’avrebbe vinto Magni: garantito che l’avrebbe vinto se tu non avessi tagliato la corda. Mi vado sempre più convincendo che i fatti dell’Aspin vennero montati da Virginio Colombo, una sorta di Cagliostro piccolo di statura …. La notte presi parte alla commedia …. Magni …. ti avrebbe preso volentieri a pugni, lui come tutti. Goddet e Binda ti imploravano, Ambrosini e io ti davamo gauloises e manate sulle spalle. In realtà, orinavi sangue e non avresti neppure finito da vinto. L’Aspin aiutò la tua crociata. Come è difficile volervi bene, fratelli francesi! Scrivemmo tutti. Poveri francesi, quanto eravamo ingiusti!" Bartali fu in pratica accusato di avere preteso il ritiro delle due squadre italiane per fare in modo che Magni non vincesse il Tour: una specie di "muoia Sansone con tutti i Filistei".

Ginettaccio non accettò mai questa tesi: se cistite c’era stata, era ormai in fase di completa guarigione. A dimostrarlo c’era la sua brillante – nonostante tutto – prestazione sui Pirenei. E poi ce ne erano sempre stati di corridori competitivi in corsa pur con qualche infiammazione o qualche problema di salute.

In "Coppi e il diavolo", Gianni Brera espresse un’altra teoria: " I’Jino fu irremovibile e Binda si trovò costretto a ritirare la squadra, perché i gregari di Bartali montavano un cambio diverso da quello di Magni, e non avrebbero potuto passare la ruota". Qui sono costretto a notare che il Granlombardo non era evidentemente un …. granmeccanico. Bartali e i suoi tre gregari, Corrieri, Brignole e Lambertini, montavano il cambio Cervino. E’ vero. Gli altri cinque gregari della nazionale italiana e tutti e sei gli uomini della squadra "cadetti" montavano il Campagnolo a bacchetta. Magni era l’unico dei sedici a montare il Simplex. E’ sufficiente consultare foto e filmati del Tour 1950 per verificare la cosa. Fiorenzo quindi non avrebbe potuto comunque ricevere la ruota da nessuno degli altri compagni. E questo dalla partenza. Da questo punto di vista quindi, il ritiro di Bartali e dei suoi sarebbe stato assolutamente ininfluente.

E allora, come giustificare il ritiro di Gino se non con la profonda umiliazione e amarezza per quanto accaduto? Poteva vincere Magni? Chi lo sa? Fiorenzo aveva superato brillantemente i Pirenei, era in giallo, poteva contare ancora su una cronometro di 98 chilometri ma come avrebbe superato le Alpi, a lui sempre alquanto indigeste? A quel punto, Bartali si trovava a soli quattro minuti da Magni. Mai, il vecchio Gino, si era trovato in posizione così propizia prima delle Alpi; nel 1948 e nel 1949 si era trovato a dover recuperare qualche decina di minuti. Doveva essere quindi ritenuto il più attendibile pretendente al successo finale perché i vari Bobet, Robic, Ockers, Lazarides e Kubler (che poi vinse quel Tour), in salita, specialmente sulle Alpi, avevano, sino ad allora, sempre preso sonore "paghe" dal terribile vecchiaccio.

E Binda? Il nostro cittì, da perfetto comandante delle truppe, si assunse in prima persona la responsabilità: non esistevano più le condizioni minime di sicurezza e allora, d’accordo col presidente Rodoni, decise il ritiro.

E Magni? Fiorenzo ubbidì a malincuore. Lui, in ritardo sull’Aspin, non si era accorto di nulla, tantomeno di quella fantomatica vecchia che l’avrebbe inseguito col coltello. Con il passare del tempo si convinse sempre più che ritirarsi fu uno sbaglio. Di quel Tour fu proclamato il vincitore morale. "Frottole! – rispose – I vincitori morali non esistono. Esistono solo i vincitori reali. Quel Tour fu vinto da Kubler e io lo persi perché mi ritirai".

Alla domanda "Restando in gara, avresti vinto tu?", Fiorenzo Cuordileone, da quel galantuomo che è sempre stato, ha sempre risposto di non potere assolutamente rispondere ma di essere assolutamente sicuro che avrebbe lottato fino all’ultimo briciolo di energia.

E questa, forse, in tutta questa vicenda, tra tante verità, è l’unica cosa certa.

 

8 settembre 2006