Un ritiro .… apprezzato

 

E’ una domenica d’estate del 1959. A Ragazzola è in programma una "tipo-pista" per allievi.

Le cosiddette "tipo-pista" sono corse ciclistiche che ripropongono le specialità classiche del ciclismo su pista, generalmente velocità e corsa a punti, su circuiti stradali dello sviluppo di uno o due chilometri.

Ragazzola è un paesino della bassa parmense nel comune di Zibello che fa rima con culatello del quale è patria riconosciuta. Zibello dista cinque-sei chilometri mentre più vicina, a un paio di chilometri, è Roccabianca, comune natale di Giovannino Guareschi che venne alla luce nel 1908 in frazione Fontanelle.

Mio padre stravedeva per Guareschi e comperava sempre "Candido" per gustarsi le varie storie di Peppone e don Camillo. Le leggeva in casa ad alta voce per farle sentire anche a mia madre e si divertivano moltissimo. Io ero un bambino, troppo piccolo per capire quell’umorismo, e, anche se mi divertiva il fatto che don Camillo potesse parlare col Cristo, facevo finta di apprezzare le storie per non dispiacere a papà. Qualche anno dopo, vista la trasposizione cinematografica, ho riletto le storie di "Mondo piccolo" ed è stato un grande piacere anche perché mi immaginavo i protagonisti con le facce di Fernandel e di Gino Cervi.

Ma torniamo alla "tipo-pista". Sono in forma, o almeno credo di esserlo. Ultimamente mi sembra di andare forte e qualche buona prestazione pare darmi ragione. Faccio tutto per bene: non faccio la barba – quei quattro peli – per paura che il caldo ed il sudore mi irritino la pelle; la bicicletta è pulita e oliata alla perfezione; ho montato una coppia di tubolari nuovi che mi sono costati un occhio.

Anche se le gare avranno luogo nel pomeriggio mi metto in viaggio la mattina assieme a due amici. Da Langhirano, dove sono ospite di nonna Adele per le vacanze estive, a Ragazzola sono circa cinquanta chilometri.

Superata Parma, verso San Secondo, il caldo comincia a farsi sentire anche se non sono ancora le dieci. Più si va verso il Po, più il caldo sembra aumentare. A Roccabianca mi viene in mente che anche il grande Giovannino aveva parlato di questo caldo asfissiante della bassa, verso il Grande Fiume, e di quel sole che rende incandescente la campagna e martella sulle teste e nel cervello della gente. Il mio berrettino di tela mi salva, forse, il cervello ma le braccia e le gambe scottano.

Arriviamo a destinazione. Ragazzola ci appare come un imprevisto paradiso. Quello che sarà il viale del traguardo è un’oasi di frescura; due file di grandi alberi dalla folta chioma non lasciano penetrare il benché minimo raggio di sole. Ai miei occhi, ancora abbagliati, sembra addirittura buio. E’ fantastico.

Cerchiamo un posto dove pranzare. A Ragazzola c’è un’ unica trattoria proprio in corrispondenza dello striscione del traguardo; è una di quelle tipiche trattorie di campagna con sedie impagliate e tovaglie di tela cerata a quadretti bianchi e rossi. I tavoli sono posti all’ombra di un ampio bersò. E’ molto piacevole. Ci sediamo a tavola quando manca un quarto a mezzogiorno; la "rezdòra", una anziana signora rubizza, indossa un abito completamente nero sopra il quale ha infilato un ampio grembiule bianco non proprio immacolato; un fazzoletto dello stesso colore del grembiule è annodato dietro la testa. Mentre pulisce con uno straccio umido la cerata, ci snocciola un lungo ed invitantissimo elenco di leccornie casalinghe che fanno venire l’acquolina in bocca ma non si addicono affatto né ad un pasto pre-gara né ai nostri portafogli. Ripieghiamo su maccheroncini al pomodoro, scaloppine di vitello e verdura cotta: cinquecento lire a cranio.

Dopo un opportuno riposo digestivo su una panchina del viale d’arrivo, decido di fare un giro di ricognizione del percorso. Salgo in sella, mi calco in testa il berrettino e via. Dopo circa duecento metri dal traguardo si abbandona il viale alberato e ci si immette con una curva a gomito, che più gomito non si può, su una strada parallela. La strada è in terra battuta, polverosa e cosparsa di ghiaietto. Non c’è un albero e il sole dell’una e mezza picchia in modo impressionante, come diceva Guareschi: "Fra l’una e le tre dei pomeriggi d’agosto, il caldo, nei paesi affogati dentro la melica e la canapa, è una roba che si vede e si tocca. Quasi uno avesse davanti alla faccia, a una spanna dal naso, un gran velo ondeggiante di vetro bollente. Passi un ponte e guardi giù, dentro il canale, e il fondo è secco e tutto screpolato, e qua e là si vede un pesce morto. Quando dalla strada sull’argine guardi dentro un cimitero ti pare di sentir crepitare sotto il sol battente le ossa dei morti".

Il tratto di strada bianca è in leggera salita e sarà lungo cinquecento metri, circa la metà del percorso. Al termine di questo tratto ci troviamo due o tre metri più alti del viale del traguardo. Il raccordo tra i due viali è costituito da un sentierino ad esse in discesa della lunghezza di una ventina di metri. Sembra un passaggio da ciclocross. Alla faccia della "tipo-pista"!

Alle due e mezza si inizia con il torneo della velocità: sedici batterie da quattro o cinque corridori; i vincitori passano ai quarti di finale (quattro di quattro corridori ciascuno) e poi avanti con semifinali e finali uno contro uno.

La mia è la terzultima batteria; siamo in quattro, meglio così, un avversario in meno da controllare.

L’attesa è lunghissima ma finalmente lo speaker chiama sul traguardo la quattordicesima batteria. Sulla linea di partenza scruto i miei tre avversari. Uno, con la maglia della Gitan di Cortemaggiore, sarà alto uno e ottanta, è magrissimo, si vedono le ossa delle spalle sotto la maglia, ha un lungo naso aquilino che lo fa sembrare un pellicano. Il secondo, del Velo Club Fidenza, è di media altezza, capelli rossi che spuntano dalle aperture del casco, ciglia e sopracciglia quasi bianche. Il terzo, della Robur di Piacenza, è un bombolotto morettino sul metro e sessanta, più largo che alto. Beh, stilisticamente mi presento meglio io.

Lo starter abbassa la bandiera. Mi porto subito in testa. Bisogna assolutamente stare davanti per imboccare per primo la discesa da ciclocross. In quel tratto si può passare solo uno alla volta e chi entra in testa sul rettilineo del traguardo si gioca la vittoria. Il pellicano e l’albino cercano di superarmi sulla destra ma riesco a tenere la posizione. Non vedo il bombolotto che sicuramente è dietro. La discesa si avvicina e il pellicano attacca ancora. Forzo per non cedere la testa ed ecco il patatrac! Il cinghietto del fermapiede destro si allenta e lo scarpino, sotto il quale è applicata la tacchetta, si incastra sbieco nel pedale. Impiego un attimo a rimettere in posizione la scarpa ma i tre fanno in tempo a superarmi. Affronto la discesa in ultima posizione con qualche metro di distacco. Sul traguardo vince facile il pellicano davanti all’albino e io non riesco nemmeno ad arrivare alla pedaliera del bombolotto. Costui, appena tagliato il traguardo alza il braccio in segno di esultanza. "Ma sei scemo? – non posso fare a meno di dirgli – Non hai mica vinto". "Scusa, non è per te. – mi risponde – Ma, sai, è la prima volta che non arrivo ultimo".

Vedo di rimettere in sesto il cinghietto rinforzandolo con qualche giro di nastro isolante e attendo la fine delle gare di velocità per rifarmi nella gara individuale a punti.

Le quattro sono abbondantemente passate quando prende il via l’individuale a punti: quaranta giri, venti traguardi con punteggio 5, 3, 2, 1 ai primi quattro, ultimo traguardo a punteggio doppio.

Per fare una buona corsa bisognerebbe stare nelle prime dieci-quindici posizioni e poi con quel collo di bottiglia della discesa ….

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Al termine del primo giro sono nei primi venti; con uno scatto mi porto nei primi dieci al termine della strada asfaltata; prima della discesa penso di portarmi ancora più avanti per andare a caccia dei punti del primo traguardo; scatto e guadagno qualche posizione, scatto ancora e …. di nuovo si allenta il cinghietto; me li vedo passare di fianco come assatanati.

Stavolta fatico a disincastrare lo scarpino, passano tutti, è finita.

Arrivo al traguardo, sterzo a destra, passo sotto la corda e mi fermo vicino ad una panchina. Tolgo il casco e cerco di risistemare il maledetto cinghietto. Una signora piacente e prosperosa, che è lì con un paio di amiche, mi osserva un attimo e poi mi apostrofa con queste precise parole: "A m’ despiés ca t’sì ritiré. T’sì acsì blèn (Mi dispaiace che ti sia ritirato. Sei così carino)".

Abbozzo un sorriso, arrossisco e salgo in bicicletta per tornare a casa.

 

 

20 settembre 2006