L’airone e l’arrotino

 

Gioco di caviglia, giro di gamba, pedalata rotonda, pedalata di pianta. Sono tutte espressioni che si riferiscono al modo di pedalare di un corridore. Secondo pareri autorevoli in materia sono da ricordare il gioco di caviglia di Beppe Saronni, il giro di gamba di Pasqualino Fornara e la pedalata rotonda di Jacques Anquetil. La pedalata di pianta, quella in cui una gamba non aiuta l’altra nella semipedalata dal punto morto inferiore a quello superiore, è invece un difetto e ne è esempio quella di Ivan Basso prima maniera.

Se al tipo di pedalata uniamo la posizione in bicicletta e, di conseguenza, il risultato finale derivante dall’unione uomo-mezzo meccanico, otteniamo quello che comunemente viene chiamato "stile".

Non tutti i campioni del pedale sono o sono stati degli "stilisti". In genere è difficile che un corridore piccolo di statura possa anche essere "bello" in bicicletta. Se poi torniamo indietro nel tempo, quando la statura media del genere umano era sensibilmente inferiore a quella attuale, i piccoli venivano vieppiù penalizzati dalle biciclette di allora che al di sotto di certe misure non esistevano.

Riguardando vecchi filmati degli anni eroici del ciclismo, notiamo corridori che si dimenano come forsennati dondolando testa e spalle e spingendo sui pedali come condannati ai lavori forzati. Non erano certo aiutati né dalle biciclette, appunto, né dalle strade e nemmeno dal vestiario. Le strade erano per lo più sterrate e dissestate e il vestiario era raccogliticcio e casuale: anziché i leggerissimi e fascianti indumenti del giorno d’oggi, venivano indossati pesanti pantaloni sostenuti da vistose bretelle, mutandoni in caso di freddo, grossi berretti da passeggio, pesanti maglioni di lana con, molte volte, normali giacche con tanto di martingala.

Malgrado tutto ciò, in certi corridori (mi vengono in mente Ottavio Bottecchia e Lauro Bordin) si potevano intravedere atleti dallo stile apprezzabile.

Il primo a prendere veramente in considerazione tutti i particolari, dalla posizione in bicicletta all’abbigliamento, fu Alfredo Binda. Il campione di Cittiglio fu il primo grande stilista della storia del ciclismo. A quei tempi nessuno poteva reggere il paragone.

L’ultimo campione di stile, a mio avviso, è stato Gianni Bugno. Gianni era bellissimo. Non dava mai l’impressione di faticare anche se spingeva rapporti proibitivi per molti. Non si muoveva di un millimetro con quel vezzo di tenere la testa leggermente inclinata a sinistra. In volata sembrava il meno veloce di tutti ma nessuno lo passava. Zio Athos ha coniato il termine di "pedalgrafia" per indicare il suo modo di pedalare. Anche se da tutti viene incensata la sua vittoria nel Giro d’Italia del 1990, in rosa per tutte le tappe, a me sono rimaste impresse nella mente altre due sue imprese: la Milano-Sanremo del 1990 e la gara di San Sebastiano del 1991. Esempi memorabili di potenza e perfezione stilistica.

Di Bugno non mi andava molto a genio, invece, la cocciutaggine nello spingere rapporti durissimi. L’esempio più eclatante fu la sua scalata al Vesuvio nel Giro 1990: sembrava pedalare lentissimo e tutti gli altri perdevano contatto, stroncati. Però, come dicevano i vecchi saggi del ciclismo di una volta, i lunghi rapporti accorciano la vita del corridore. Al Giro delle Fiandre del 1994, invece, lo vedemmo zompettare agilmente su muri e muretti. Vinse usando rapporti agili. "Allora ne è capace" dedussi soddisfatto. Sperai in una inversione di tendenza nelle sue abitudini. Macchè.

Rapporti agili, specialmente in salita, sono stati adottati sia da Indurain sia da Armstrong, anche se, dal punto di vista stilistico, nessuno mi ha mai entusiasmato, in particolare il secondo.

I grandi passisti hanno sempre curato molto la posizione in bicicletta e non poteva essere che così. Accomunerei Learco Guerra, Fiorenzo Magni ed Ercole Baldini per il fisico massiccio e la posizione in sella che dava un’idea di grande potenza quando erano lanciati in pianura. In salita, ahimè, la solfa cambiava ed erano costretti ad appiattirsi sulla bici, incapaci di spingere rapporti agili. Non mi ha mai entusiasmato molto, invece, Francesco Moser soprattutto per le sue caratteristiche morfologiche.

Due grandi passisti eleganti e ben proporzionati furono i francesi Roger Riviére e Jacques Anquetil. Più bello, forse, il primo del secondo, ma sicuramente eccezionali entrambi. Con loro si trovò a competere nell’inseguimento su pista Guido Messina che fu uno dei pochissimi corridori di piccola statura ad avere una posizione in sella compatta ed elegante.

Gli sprinter, proprio per lo sforzo violentissimo che producono nelle volate, raramente possono rappresentare un esempio di perfezione stilistica. Cipollini e Petacchi sono comunque buoni esempi anche se, secondo me, resta ineguagliato il belga Rik Van Steenbergen. Tra gli sprinter su pista penso che Antonio Maspes non abbia avuto rivali neppure dal punto di vista estetico.

Tra i passisti-scalatori più eleganti citerei Gianni Motta, Agostino Coletto, Louison Bobet e, soprattutto, Hugo Koblet meglio di Felice Gimondi,Vittorio Adorni e Luis Ocana. Bruttino Greg Lemond. Bernard Hinault era un esempio di potenza e compattezza mentre il grande Eddy Merckx era del tutto particolare. Aveva una struttura simile ai passisti più pesanti come Magni e Baldini e come questi assumeva una posizione allungata e aerodinamica in pianura anche a medie elevate. Il Cannibale, però, negli sforzi violenti, sia in volata sia in salita, sprigionava la sua enorme potenza in maniera piuttosto scomposta, picchiando come un fabbro sui pedali quasi volesse distruggere la bicicletta. Buon per lui che il suo meccanico era un certo Ernesto Colnago.

E gli scalatori puri? Generalmente di taglia medio-piccola, non sono mai stati molto belli stilisticamente anche perché spesso costretti ad alzarsi sui pedali. Uno tra i più esemplificativi è stato Ivan Gotti, soprannominato "il pendolo" perché viaggiava costantemente sui pedali dondolando alternativamente a destra e a sinistra. Uno dei più grandi, il lussemburghese Charly Gaul, era un brevilineo molto evidente con due braccia molto lunghe. Impugnava facilmente il manubrio nella parte bassa e pedalava, sia seduto sia "en danzeuse", mulinando rapporti molto corti.

Anche Marco Pantani usava impugnare il manubrio nella parte bassa e, rispetto a Gaul, era più armonioso perché meglio proporzionato fisicamente. Il Pirata, inoltre, era in grado di andare sia di agilità sia di potenza. Non era perfetto, certo, nemmeno lui, e le riprese televisive, soprattutto quelle dall’elicottero, mettevano in evidenza che, quando si alzava sui pedali, appariva costantmente sbilanciato da un lato.

Tra gli scalatori di un tempo, forse, il migliore dal punto di vista estetico è stato lo spagnolo Federico Martin Bahamontes, favorito da una maggior statura.

Tra gli scalatori di oggi non è male Damiano Cunego che penso abbia trovato la posizione per lui ottimale, anche se non mi piace quando pedala in pianura e tende a portarsi sempre in punta di sella.

E Bartali? Bartali aveva in sé più o meno tutti difetti, dal punto di vista stilistico, tipici degli scalatori puri. Non è stato certamente aiutato dai mezzi meccanici dell’epoca: telai troppo grandi che costringevano ad abbassare al massimo la sella sul tubo piantone. Gino, che era alto come Cunego, se avesse avuto la possibilità di avere una bicicletta come quella di Damiano, ne avrebbe tratto un notevole giovamento. Ma la pedalata? La pedalata, no. Sarebbe rimasta invariata, nervosa, incostante, tutta a scatti. L’uomo di ferro era l’esempio contrario di ciò che viene definita "pedalata rotonda". In salita si alzava spesso sui pedali squassando la bicicletta da una parte all’altra, scattava una, cinque, dieci, venti volte. Spesso, dopo avere dato alcune violente pedalate, andava a ruota libera per poi martellare di nuovo sui pedali in modo brutale. No, non era uno stilista. Gianni Brera diceva che Bartali aveva una "pedalata da arrotino". Penso che il Grangioann non avrebbe potuto trovare una similitudine migliore.

E poi? Poi c’era Coppi. Il Campionissimo merita un discorso a parte. Sempre per citare Brera, Coppi aveva il petto di un uccello ed è assolutamente vero. La sua cassa toracica era prominente come quella di un uccello e tonda come una botticella. Le gambe erano sproporzionatamente lunghe, sottili dal ginocchio in giù mentre i quadricipiti erano poderosi. Lo scheletro, sempre secondo Brera, aveva delle carenze gravi dovute alla fame atavica, alla pellagra e a chissà quale altra diavoleria. Insomma, Fausto era morfologicamente brutto e fragile.

Però, miracolosamente, la fragilità dell’uomo unita alla fragilità della bicicletta, davano vita ad una macchina perfetta e potentissima. La teoria di Brera può essere considerata fantasiosa ma la realtà è che il brutto anatroccolo, una volta in bicicletta, diventava un magnifico cigno, anzi un airone.

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C’è una stupenda foto, scattata al Tour del 1949, credo sul Tourmalet, dove la sagoma di Coppi in piedi sui pedali, leggerissimo, ricorda il volo di un uccello meraviglioso.

Insomma, il più bello di tutti, stilisticamente parlando, resta sempre lui, il grande Fausto. Parola di bartaliano.

 

29 ottobre 2006