Il negozio del Mosč

 

Negli anni cinquanta e sessanta il negozio di Mosč Allievi, in via Petrella, a pochi metri da corso Buenos Ayres, era uno dei punti di riferimento per i ciclisti di Milano e dintorni. Quasi nessuno conosceva il suo cognome, Allievi; per tutti era semplicemente Mosč, anzi "il Mosč", per quella simpatica abitudine milanese di mettere l’articolo davanti ai nomi propri di persona.

Nel negozio del Mosč si poteva trovare tutto quanto potesse occorrere ad un corridore ciclista. Era conosciuto anche dai professionisti e, in occasione di gare come la Milano-Torino, la Milano-Sanremo e il Giro di Lombardia, era facile incontrarvi, alla vigilia, diversi corridori stranieri che venivano a fare incetta di guarniture, pedali, pedivelle ed accessori vari che, evidentemente, nei loro paesi non si trovavano o costavano parecchio di pių.

Il negozio del Mosč aveva una sola luce. Sulla sinistra c’era la porta con i vetri pieni zeppi di decalcomanie, sulla destra la vetrina. La vetrina era divisa in due. La parte superiore era dedicata ai componenti meccanici ed in centro campeggiava una fiammante bicicletta, con tanto di marca "Mosč", specialissima, al prezzo di lire quarantamila. Attorno alla "specialissima" si poteva ammirare il meglio della componentistica e degli accessori: bloccaggi, cambi e deragliatori Campagnolo, catene e ruote libere Regina Extra, guarniture e pedali Magistroni, freni Universal, selle Brooks, cerchi Nisi o Ambrosio, nastri Gaslo, fermapiedi e cinghietti Binda, borracce, portaborracce e chi pių ne ha pių ne metta. Nella parte inferiore della vetrina, un loculo alto non pių di un metro per guardare il quale il passante doveva genuflettersi sul marciapiede di via Petrella, trovava posto l’abbigliamento: maglie, calzoncini, scarpini, maglioni invernali, pantaloni alla zuava, baschi, berretti di lana, berrettini di tela, guanti senza dita, guanti di lana invernali, calzini bianchi bassi, calzettoni di lana a scacchi. In fondo alla vetrina inferiore venivano esposti anche creme, unguenti, olio canforato.

Per noi ragazzi, aspiranti ciclisti e appassionati, il negozio del Mosč era una specie di Bengodi e, almeno tre-quattro volte la settimana, passavamo per vedere cosa ci fosse di nuovo. Eravamo sempre documentatissimi sui materiali e sui prezzi. Hai visto? La "specialissima" del Mosč costa quarantamila lire come la Legnano nel negozio vicino a Piazzale Loreto. Perō da Focesi (negozio in corso Buenos Ayres a cento metri dal Mosč) la Gloria da corsa costa trentanovemilanovecento lire. Vuoi mettere? La Gloria č la bici pių leggera di tutte.

Il mio amico Michele Deodato, quello dell’Ovomaltina e della pasta d’acciughe, comprō una splendida Legnano nel negozio vicino a piazzale Loreto e poi corse a comprare una maglia azzurra e bianca del Mosč per il fatto che la maglia sponsorizzata "Mosč" costava millecinquecento lire anziché duemilacinquecento come una maglia della Legnano o una maglia senza scritta.

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Penso di avere comperato sempre tutto dal Mosč tranne la maglia e i calzoncini della societā per la quale ero tesserato. Gli scarpini a suola rigida con tanto di tacchette costavano tremilacinquecento lire, una follia. Rinunciai per una quindicina di volte al cinema domenicale. Mi costarono piccole e grandi rinunce i guantini, la tuta ovviamente sponsorizzata "Mosč" per risparmiare, il casco, quello bello con le listelle nere lucide, i calzini bianchi bassi e i tubolari che ogni tanto, purtroppo, bisognava pure sostituire. Credo di essere stato uno degli ultimi ad acquistare e ad utilizzare una borraccia di alluminio. Solo chi l’ha provata puō sapere cosa vuole dire bere da una borraccia di alluminio: l’acqua prendeva un sapore schifosissimo ma se si aveva tanta sete la si mandava gių ugualmente. Poi, una volta vuotata e scolata, all’interno si formavano strane incrostazioni che pareva impossibile eliminare. Incominciavano, č vero, ad essere prodotte borracce in plastica ma quelle in alluminio costavano centocinquanta lire mentre quelle in plastica duecentocinquanta …. e poi, anche le prime borracce in plastica davano all’acqua sapori strani e, anche vuote, era preferibile non annusarle. Alla fine degli anni cinquanta feci una pazzia: per ben seicento lire acquistai una borraccia originale Tour de France con tanto di scritta ufficiale "La Vitelloise". Me la guardavano tutti e, devo dire la veritā, il sapore dell’acqua migliorō di molto.

Il Mosč non era pių tanto giovane e in negozio lo sostituiva quasi sempre la figlia che era ferratissima su tutto il materiale ciclistico ma soprattutto sull’arte di non concedere sconti a nessuno. Sotto la quarantina, era decisamente una bella donna, prosperosa il giusto e con uno sguardo indagatore che ti faceva la radiografia. Forse per il tipo di lavoro ma soprattutto per il suo modo di fare sbrigativo e per il fatto di parlare quasi sempre in dialetto, riduceva quasi a zero la sua femminilitā e incuteva rispetto e titubanza negli avventori, specialmente nei pių giovani. Si diceva in giro che, in casa, fosse lei a comandare, sottomettendo padre, madre e marito. D’altra parte, perō, non era nemmeno ben chiaro se un marito ci fosse davvero. Inutile dire che io cercavo di entrare nel negozio quando c’era il Mosč perché la figlia mi metteva un po’ in imbarazzo.

Una sera di primavera del 1958, tornando da scuola, decisi di passare dal negozio del Mosč per vedere se ci fossero novitā. Fu lė che, accosciato sul marciapiede di via Petrella, notai in fondo alla vetrina inferiore una strana scatoletta rossa con la scritta "Dextro Sport". Cosa poteva essere mai? Pomate con quel nome non ne avevo mai sentite e l’olio canforato veniva venduto in boccetti. Il non sapere cosa fosse mi incuriosiva. Passai qualche altra volta dal negozio e quella scatoletta rossa era sempre lā, pių invitante che mai. Decisi di chiedere informazioni ma avrei dovuto aspettare che ci fosse solo il Mosč nel negozio.

Passai altre volte ma, dall’esterno, intravedevo sempre la figlia e rimandavo. Finalmente, una sera, sbirciai all’interno e vidi il Mosč solo, solissimo, che stava leggendo la "Gazzetta". Entrai.

"Senta, ho visto in vetrina quella scatoletta rossa con scritto "Dextro Sport". Volevo sapere che cosa č".

"Ah, mi su no chi rob lė (Ah, io non so quelle cose) – rispose il Mosč – Speta ‘n momčnt che ciami la me tusa (Aspetta un momento che chiamo mia figlia)".

Patatrac! Dal retrobottega fece la sua apparizione la figlia del Mosč che prese subito in mano la situazione

"Te voeret savé se l’č ‘l dextro sport? (Vuoi sapere cosa č il dextro sport"?) – mi chiese facendomi la radiografia con il suo sguardo indagatore – Ma l’č destrosio. Il destrosio č zucchero allo stato puro. Ti tel lāset deslenguā in bocca e lų el va sųbit in circulasiųn (Tu lo lasci sciogliere in bocca e lui entra subito in circolo)".

"Una bomba" azzardai timidamente.

"Ma che bomba e bomba – replicō spazientita – Di’ no di stupidād. Questa chė l’č roba bōna, roba seria e la fa dumā ben (Non dire stupidaggini. Questa č roba buona, roba seria e fa solo bene)".

Inutile dire che me ne tornai a casa con la scatoletta rossa, dopo avere lasciato alla figlia del Mosč un bel cinquecento lire.

Nel timore che, a casa, i miei, vedendo questa strana scatoletta, potessero sospettare chissā quale porcheria, eliminai la confezione e tenni solamente le dodici tavolette di destrosio avvolte in una anonima carta stagnola. Per verificarne l’effetto ne lasciai sciogliere una in bocca dopo cena. Il sapore era piacevolmente fresco e ricordava quello della menta. Molto probabilmente per l’emozione della prova quella sera faticai a prendere sonno, cosa che attribuii sicuramente all’effetto …. benefico della tavoletta miracolosa.

Tenni da conto le restanti undici tavolette, deciso ad aspettare l’occasione propizia per usarle. L’occasione venne in estate mentra passavo le vacanze estive a Langhirano da nonna Adele: una gara a cronometro a staffetta open da Torrechiara a Corniglio, 33 km. Io avrei corso la prima frazione da Torrechiara a Beduzzo, 19 km con una sola salita impegnativa mentre il mio amico Giancarlo Marchi, pių forte di me in salita, avrebbe corso la seconda frazione di 14 km che prevedeva un finale piuttosto duro.

Avevo preparato tutto a puntino, programmando l’assunzione della tavoletta miracolosa a metā circa della mia frazione, lungo la discesa del Chiastrone, dove sarebbe stato pių semplice estrarla dalla tasca e metterla in bocca. Misi pertanto una tavoletta senza carta stagnola in uno dei due tasconi anteriori della maglia e le altre dieci in una delle tasche posteriori.

Pronti, via! Partii con il numero due e dopo soli sei chilometri raggiunsi e superai il numero uno, un ragazzotto che pedalava tutto sghimbescio, strapazzando la malcapitata bicicletta. Mi ritrovai cosė a fare da apripista alla corsa. Finalmente arrivai al Chiastrone e iniziai la discesa. Feci un po’ di fatica a trovare nel tascone la tavoletta ma alfine riuscii a metterla in bocca. Ahimč, la salivazione quasi azzerata dallo sforzo non era sufficiente a farla sciogliere. La discesa terminō e da lė a poco avrei dovuto affrontare un paio di chilometri di salita piuttosto dura. Decisi di frantumare la tavoletta con i denti il pių finemente possibile. Non riuscii ad ultimare l’operazione prima dell’inizio della salita. Alleggerii il rapporto e, con la bocca ancora piena, cominciai ad alzarmi sui pedali per forzare l’andatura. Ebbene, ansimavo tanto che i frammenti, anziché essere deglutiti, vennero impietosamente sputati sull’asfalto.

Quella fu la fine della tavoletta miracolosa mentre le altre dieci, dimenticate in una tasca della maglia, finirono nel mastello del bucato di nonna Adele.

 

12 dicembre 2006