Pane, tollini e fantasia

 

All’inizio degli anni ’50, anche se gli italiani stavano cercando di dimenticare la grande tragedia del conflitto mondiale, i problemi per il paese erano ancora tantissimi e la vita della maggior parte delle persone era ancora contraddistinta dalla povertà, dalle difficoltà e dall’arte di arrangiarsi. Il "boom economico" non era ancora esploso e gran parte delle famiglie faceva fatica a tirare la fine del mese.

La televisione non c’era ancora, si ascoltava la radio, le automobili erano poche, le biciclette tante. Ci si spostava quasi sempre a piedi per risparmiare i soldi del tram. Si economizzava un po’ su tutto, non per mettere i soldi da parte, ma per sbarcare il lunario.

Noi bambini dovevamo accontentarci di quello che passava il convento. Certo, i nostri genitori facevano il possibile, nei limiti delle loro risorse economiche, per assicurarci almeno un’alimentazione adeguata mentre per il resto ci si arrangiava un po’.

Al posto di merendine, brioches, biscotti e cioccolato c’era il pane. Pane burro e zucchero, pane e marmellata magari fatta in casa e, al massimo, pane, burro e marmellata.

E i giocattoli? Beh, qualcosa ci veniva regalato ma non un giorno sì e l’altro pure come avviene per i bambini d’oggi. Era quindi indispensabile inventare i giochi da fare con quello che era disponibile. Quindi cose poco costose e tanta fantasia.

Il gioco più amato da noi maschietti era il cosiddetto Giro d’Italia con i tappi corona delle bibite. A Milano li chiamavamo "tollini" perché di tolla, cioè di latta, erano fatti. C’era chi li chiamava "agrette" dal nome di una bibita in voga, però "tollini" era il vocabolo che andava per la maggiore. In Brianza li chiamavano "zete" perché sui tappi di alcune bibite era riportata una grossa "Z". Quando andavo a passare le vacanze estive a Langhirano da nonna Adele, dovevo ricordarmi di chiamarli "coperchietti" altrimenti non mi avrebbe capito nessuno. A Langhirano, peraltro, venivano chiamati anche "sinalcoli", strano vocabolo dalla curiosa etimologia latineggiante: sine alcol, senza alcol, analcolico.

Il nostro lattaio, l’Arioli di viale Abruzzi, non buttava via i tappi corona dopo avere stappato le bibite ma li conservava in una grossa scatola di cartone e poi li elargivai con studiata parsimonia ai figli dei suoi clienti. Il proprietario del bar di fronte alla latteria dell’Arioli, invece, costruiva scomodissime tende piegando in due e stringendo su pezzi di spago centinaia di tollini. I rimanenti, non molti per la verità, venivano conservati in un secchio e poi regalati ai bambini. Ovviamente noi preferivamo il munifico Arioli tanto che avevamo affibbiato al bar di fronte il soprannome di "bar dello stitico".

All’interno dei tollini venivano inserite, dopo sapiente taglio circolare, le figurine dei ciclisti, se disponibili, oppure dei tondi di carta opportunamente colorata con una scritta riportante il nome dell’atleta: tondo celeste con fascia bianca per Coppi, tondo completamente giallo per Bartali, rosso per Magni, bianco con fascia blu per Bevilacqua, bianco rosso e blu per i francesi Robic e Bobet.

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Al di là delle figurine inserite, la preparazione dei tollini era un’arte. C’era chi conferiva loro maggiore stabilità appesantendoli con l’inserimento di due o tre tondini di sughero prelevati da tollini sacrificali, oppure riempiendoli accuratamente con lo stucco da vetraio che era perfetto per quell’uso ma aveva il difetto di rilasciare la parte oleosa contenuta rovinando così la figurina.

La preparazione dei tollini da corsa finiva poi con la levigatura della faccia esterna, cioè quella con la marca della bibita. I tollini venivano sfregati per ore sul marciapiede fino a fare sparire tutta la vernice, il che li rendeva oltremodo scorrevoli.

Poi, finalmente, arrivava il giorno della gara. La pista veniva tracciata col gesso sul marciapiede. Solitamente era molto tortuosa e per simulare le salite si disegnava una stradina stretta stretta: più stretta era la stradina più dura era la salita. Alcune volte, sadicamente, ad un certo punto del percorso si segnava un cerchio irregolare sopra la strada. Era il "lago". Se, dopo avere effettuato un tiro, il tuo tollino si fermava in mezzo al lago eri costretto al ritiro.

Generalmente il gioco iniziava con una dichiarazione unanime:" Minga bun tajà". Non era valido tagliare le curve, cioè, nelle curve i bordi del tollino dovevano toccare sempre la riga bianca. I buoni propositi non venivano sempre mantenuti e, spesso, sorgevano contestazioni che quasi sempre finivano con un: "Va bene. Va bene. Rifo".

L’autore del tiro contestato ripeteva il tiro e, nella malaugurata ipotesi di un suo chiaro errore, non poteva sottrarsi al coro degli avversari: "San Gioann fa minga ingàn".

I passanti, che erano abituati a questi giochi dei ragazzi, cercavano di non disturbare la corsa. Qualcuno magari sbuffava un po’ ma tutti sopportavano, anzi, ogni tanto, qualche anziano signore si informava su come andasse la corsa.

La sera si tornava a casa con le mani e le ginocchia tanto sporche da richiedere l’intervento energico della mamma.

Quando pioveva il Giro d’Italia dei tollini diventava "indoor". Ci si trasferiva a casa di qualcuno e si giocava sul pavimento sfruttando al meglio i colori e la disposizione delle piastrelle. Di solito preferivamo andare a casa mia perché il tipo di pavimento era più adatto alla bisogna e poi anche perché mia madre qualche tratto di gesso, magari per le salite, ce lo lasciava fare. Il Giro d’Italia partiva da Milano, in cucina, transitava da Roma e Bologna, in anticamera per finire con le Dolomiti e l’arrivo al Vigorelli in camera da letto.

Nel ciclismo fantastico dei tollini capitavano le cose più strane: Fiorenzo Magni staccava Bartali e Coppi sul Pordoi, Bartali batteva Coppi a cronometro, Malabrocca transitava primo sul Tourmalet, che per l’occasione era stato inserito tra le salite dolomitiche, il pistard Astolfi era in lotta per il successo finale e, infine, Nedo Logli si aggiudicava il Giro d’Italia.

 

5 gennaio 2007