Lo zio Cavalli, i peli di Nencini e la pera di Coppi

 

Negli anni ’50, Collecchio non era ancora la capitale dell’impero Parmalat ma era un laborioso paese a una decina di chilometri da Parma, diviso in due dalla statale della Cisa e dominato da una collinetta di qualche decina di metri sulla cui cima era, ed è ancora, posta la chiesa parrocchiale con il suo lungo e snello campanile. Ad una cinquantina di metri dalla chiesa faceva bella mostra di sé il ristorante Ceci, la cui ottima cucina ed il giardino ombreggiato lo rendevano ideale per i pranzi di nozze.

A Collecchio abitava la zia Antonietta, sorella di mia madre, ed io andavo frequentemente a trovarla durante l’estate un po’ perché trovavo rilassante stare con lei e un po’, forse, perché mia cugina Gabriella aveva un sacco di amiche.

Il marito della zia Antonietta era lo zio Giovanni ma nessuno, forse nemmeno lui, ricordava quale fosse il suo nome di battesimo perché tutti lo chiamavano con il cognome, Cavalli. Per noi nipoti era lo zio Cavalli. Per la zia e le figlie, Giovanna e Gabriella, era "Cavalli", anzi "Cavàli" per una sorta di "dialettizzazione" che coinvolgeva tutti i nomi propri che si prestassero ad essere opportunamente storpiati.

Lo zio Cavalli era un personaggio unico. In gioventù aveva imparato l’arte del fabbro poi aveva lavorato come meccanico per alcune ditte, trasferendosi prima a Varano Melegari poi a Neviano de’ Rossi; infine era stato assunto alla Petrolifera di Fornovo e si era stabilito a Collecchio. Ogni mattina, sole, acqua, vento o neve, percorreva gli undici chilometri da Collecchio a Fornovo in sella ad un "Motom 48" che chiamava affettuosamente "al mè asnèn", il mio asinello.

Era un artista della lima. Da due pezzettini di ferro aveva ricavato due mosche in scala uno a uno tanto perfette che quando le vedevi applicate su una tendina del buffet della sala ti veniva voglia di prendere la mitica paletta.

Una volta tornato dal lavoro si metteva in "tiro": camicia rigorosamente bianca e perfettamente stirata dalla zia, pantaloni grigi con una inappuntabile piega, bretelle in tinta con i pantaloni e scarpe nere lucidissime.

Era un omone con capelli a spazzola bianchi e denti, suoi, perfetti e bianchissimi. In più aveva un sorriso a fior di labbra che non riuscivi mai a capire quando parlasse seriamente o quando volesse prenderti in giro.

Tutti gli anni a Collecchio c’è la Sagra della Croce, una delle più antiche di tutta la provincia di Parma. Fu proprio in occasione della sagra che, nel settembre del 1958, fu organizzato il circuito degli assi. Mi autoinvitai per qualche giorno a casa degli zii. Zia Antonietta mi deliziò con i suoi manicaretti e lo zio Cavalli mi impegnò in lunghe chiacchierate tra il serio e il faceto, alla fine delle quali mi restava sempre il dubbio di essere stato preso in giro. "Mi la televisiòn adès a n’ la tog miga. La torò quand la faràn a transistor" era una delle sue più frequenti spiegazioni del fatto che in casa non ci fosse il televisore.

E venne la domenica della corsa. La partenza era prevista alle 14,30 ma io mi mossi almeno due ore prima per assicurarmi un posto in prima fila.

"Ma tu non vieni, zio?" chiesi prima di uscire. "Co’ vot ca vèna a fér? Tant mi so bèle ca vensa Baldèn". Lo zio era già sicuro della vittoria di Baldini che una quindicina di giorni prima aveva conquistato la maglia iridata a Reims.

Filai via di corsa e riuscii a trovare un ottimo posto un paio di metri oltre la linea del traguardo. Il circuito era quanto di più spartano si potesse immaginare. Due chilometri e mezzo al giro per quaranta giri pari a cento chilometri tondi. Data la configurazione di Collecchio, il circuito venne disegnato in aperta campagna poichè per farlo in paese avrebbero dovuto chiudere al traffico la statale della Cisa. Quindi il vialone d’arrivo, non molto largo, venne posto sulla strada per Madregolo ed il resto del percorso si snodava tra i campi con almeno mezzo chilometro di strada bianca. Molto spartano anche il vialone d’arrivo: niente tribune, una grossa corda con dei paletti delimitava i bordi della strada, una striscia bianca un po’ storta per terra ed uno striscione rosso legato a due pali della luce.

La gente si accalcava in doppia o tripla fila lungo le corde, impaziente di salutare la maglia iridata di Baldini ma ancor più desiderosa di vedere all’opera Coppi. Il grande Fausto aveva quasi trentanove anni e, dopo due anni passati con la maglia bianca della Carpano-Coppi, era tornato alla Bianchi per una sorta di canto del cigno che in realtà non si era verificato. Fausto aveva trascorso una stagione assolutamente insignificante con due o tre vittorie in altrettanti circuiti e un anonimo trentaduesimo posto al Giro d’Italia. Gli anni e gli acciacchi di una lunga carriera avevano fiaccato il Campionissimo la cui migliore prestazione, almeno dal punto di vista tattico, era stata quella del mondiale di Reims dove, avendo letto perfettamente la corsa, aveva avuto il merito di suggerire a Baldini di entrare in quella che sarebbe stata la fuga decisiva. Malgrado tutto, il pubblico era sempre dalla sua parte e una sua vittoria, sia pure in un circuito, avrebbe portato una grande gioia a tutti.

Come in quasi tutti i circuiti dell’epoca il grande regista dell’organizzazione era Nino Recalcati al quale quasi tutti i comitati organizzatori si rivolgevano per prendere contatti con i corridori e concordare gli ingaggi. Recalcati, mediocre pistard degli anni ’40, abbandonata la carriera ciclistica, si era subito ritagliato il suo spazio nel mondo delle organizzazioni diventando praticamente un uomo indispensabile per chi volesse organizzare riunioni o circuiti.

Il grande Nino si fermò proprio di fronte a me mentre una persona del comitato organizzatore gli muoveva qualche appunto: " Però, signor Recalcati, poteva ingaggiare qualche corridore di Parma". "Ma c’è Brenioli che è di Fidenza". "Brenioli va bene però è uno solo. Perché non ha chiamato Renato Ponzini che è di Compiano?" Recalcati si allontanò allargando le braccia. Evidentemente aveva anche lui le sue preferenze o le sue convenienze.

I corridori arrivarono quasi tutti assieme tre quarti d’ora prima della partenza. Si erano ritrovati presso le scuole elementari per le operazioni preliminari e poi si erano portati sul circuito per il riscaldamento.

Grandi applausi per Ercole Baldini che sfoggiava la sua nuovissima maglia iridata, grandi applausi per il giovane Aldo Moser, quell’anno caposquadra dei bianco-gialli della Calì Broni-Girardengo, grandi applausi per Gastone Nencini in maglia Chlorodont e grandi applausi per l’idolo locale Rizzardo Brenioli in maglia Atala. Ma Coppi dov’era? Di Fausto nemmeno l’ombra. Correva voce che fosse stato trattenuto in Comune dal sindaco.

Gastone Nencini, dopo una breve sgambata su e giù per il vialone d’arrivo si fermò vicino alla mia postazione e, seduto sulla canna della bici, si mise a chiacchierare con un altro corridore: " Mi so’ già scaldato abbastanza. ‘Un vorrai miha che vada a provare ‘l percorso col rischio di bucare ‘na gomma in quel tratto di strada bianca."

Di Nencini mi colpì il fatto che non avesse le gambe depilate. Non avevo mai visto un corridore, specialmente un professionista, con i peli lunghi sulle gambe. Evidentemente Gastone dopo il mondiale, per il quale aveva anche un po’ polemizzato, aveva tirato i remi in barca.

Alle due e dieci di Coppi nemmeno l’ombra. La gente si stava spazientendo. Un signore sulla cinquantina diceva ad un suo amico: "T’ vedré cal riva a l’ultim minùt."

Un carabiniere si rivolse ai due con chiara inflessione meridionale: "Coppi nun viene chiù. Chillo v’ha fatto ffessi."

"Et sintù co’ l’ha dit col ‘caramba’ lì? – disse il signore sulla cinquantina all’amico – Chillo v’ha fatto ffessi … v’ha … quindi i cojòn sèma mi e ti."

Alla fine risultò però che di "cojòn" non ce n’erano proprio perché, alle due e venti, ci fu un gran fermento in fondo al viale d’arrivo. Comparve una Lancia Aurelia grigia dalla quale scese Fausto Coppi già vestito da ciclista. Era proprio lì a un metro da me, allungando una mano avrei potuto toccarlo. La folla era impazzita, altro che Baldini, campione del mondo!

L’uomo che era al volante dell’Aurelia tolse dal bagagliaio la bicicletta, montò le ruote e poi spillò il numero di gara sulla schiena di Coppi che, nel frattempo, si mangiò una grossa pera.

Alle due e mezzo in punto venne dato il via. Ad ogni tornata grandi applausi per Baldini e un’ovazione per Coppi. Verso metà gara passò solo Coppi con una manciata di secondi sul gruppo. La gente sembrava impazzita. Per un paio di giri Fausto restò solo in testa dando l’idea di avere aumentato il vantaggio. Poi di nuovo tutti in gruppo per la delusione del pubblico.

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A una ventina di chilometri dalla fine andarono in fuga Ercole Baldini e Aldo Moser. Era la fuga buona. Il vantaggio aumentò fino alla volata finale. Ercolèn fece una vigorosa progressione e Moser, negato per gli sprint, finì secondo a cinque o sei macchine. Intanto, dietro, il plotone si era frazionato e i corridori arrivarono alla spicciolata. Terzo fu Rizzardo Brenioli, rosso di capelli e rosso paonazzo in viso. Il grande Fausto concluse in quinta posizione tra gli applausi affettuosi e un po’ delusi del pubblico.

La folla invase il viale d’arrivo mentre i corridori cercavano di portarsi verso il municipio per la premiazione. Io tornai a casa degli zii.

Trovai lo zio Cavalli in giardino mentre beveva da un mestolo stagnato l’acqua che aveva appena prelevato dal pozzo.

"Et vist? – mi disse subito - T’ l’éva dit mi ca vinséva Baldèn."

 

28 febbraio 2007