Il bell’Enrico

 

Quando, nella seconda metà del 1957, iniziai a frequentare il Vigorelli non come spettatore sulle gradinate ma come accompagnatore del mio amico Piero Pambieri, giovane sprinter, ebbi l’occasione di frequentare il mondo della pista "visto da dentro", cioè dagli spogliatoi, dal prato e dalla "zeriba".

Piero si era affidato quasi casualmente alle cure del vecchio Cappi e nel 1958 sarebbe passato dall’Augustea alla Rino Fenaroli-Ottusi dalla quale, in qualche modo, il Cappi dipendeva. Era una dipendenza piuttosto blanda perché Giuseppe Ottusi, titolare per diletto della società, meccanico a tempo pieno nel suo negozio di via Padova nonché meccanico della Faema di Learco Guerra e Charly Gaul, si limitava a pagare l’affitto della "cabina" e, in cambio, il Cappi gli custodiva due o tre bici da pista e si prendeva cura di qualche corridore in maglia gialloblu. In realtà si può dire che il Cappi avesse una propria "scuderia" perché alcuni corridori tesserati per squadre non particolarmente agguerrite per la pista si affidavano alle sue cure. Fu così che Piero entrò prima a far parte della "scuderia Cappi" e poi della Fenaroli-Ottusi.

La punta di diamante della scuderia Cappi nel 1957 era Enrico Castoldi, allievo del secondo anno, per buona parte della stagione sempre battuto da Sergio Rebughini. Rebughini era uno sprinter tosto che sprizzava potenza da tutti i pori. Il naso schiacciato da pugile gli conferiva un’aria da ammazzasette e storpiaquattordici. Per due anni consecutivi si era piazzato secondo ai campionati italiani, vinti entrambe le volte da un promettente giovane veneto, tale Giuseppe Beghetto.

Enrico Castoldi, invece, era uno sprinter un po’ atipico, elegante, longilineo, con masse muscolari ben proporzionate e non eccessivamente evidenti. Inoltre il era proprio un bel ragazzo: moro, capelli ondulati il giusto, occhi scuri e vivaci. Insomma, era uno che piaceva alle ragazze e che, a sentir dire in giro, non ne disdegnava la compagnia.

Il vecchio Cappi stravedeva per lui ed era assai prodigo di consigli che elargiva con quel suo linguaggio colorito in cui si mescolavano il modenese d’origine, un milanese acquisito in un modo del tutto personale, e qualche parola francese imparata in gioventù vagabondando per le piste di tutta Europa a fare da contorno agli assi di allora. Da "routier", "sprinter", "pistard" e "soigneur" passava a "ruzzolare bene il rapporto" nel senso di spingere il rapporto con facilità. Il "ruzzolare" del Cappi derivava da uno storpiato "ruzzare" dal milanese "ruzà", cioè "spingere". Altri modi di dire ricorrenti erano "lasciare lì come una pelle di stracchino" o "fare la figura del beccafico".

Il Cappi era prodigo di consigli: "Enrico, dai retta al Cappi, boia d’un mondo. Tu parti in testa ai duecentocinquanta metri poi, a metà curva, quando quello là comincia la rimonta, tu gli dai una bella ‘sbalanzata’. Oh, dico, mica una ‘sbalanzata’ che ti vedano i giudici …. una ‘sbalanzatina’ col ca g’vol per disturbare la rimonta. Et capè? M’arcmànd". La "sbalanzata" nel vocabolario del vecchio Cappi era un colpo di coda, un leggero allargamento dalla linea di corsa, al fine di infastidire l’azione di rimonta dell’avversario.

 

Enrico era furbo e imparava in fretta. A metà settembre del 1957 riuscì finalmente a battere in finale il rivale Rebughini. Fu una volata in rimonta, senza "sbalanzate" né altre diavolerie. Vinse di una gomma o poco più. Lo sforzo sostenuto da entrambi li fece sbandare leggermente, si toccarono e, dopo l’arrivo, finirono a strusciare sul mitico parquet della pista magica. Il Cappi, fuori di sé dalla gioia, corse ad abbracciare il suo pupillo, incurante delle abrasioni e delle smorfie di dolore di Enrico.

In quel settembre Enrico superò Rebughini altre due volte prima di partecipare, a Roma, alla finale nazionale del "Criterium Giovanile", un torneo per velocisti riservato alla categoria "Allievi", dal quale erano esclusi solamente il primo e il secondo classificato ai campionati italiani, cioè Beghetto e Rebughini.

Enrico partì da solo, in treno con bici bagaglio appresso. Il Cappi aveva messo i copri gomme per proteggere i delicati tubolari di seta e, in aggiunta, aveva legato due ruote di scorta al telaio.

Prima della partenza del suo protetto non lesinò consigli: "Mo se non vai almeno sul podio non tornare nemmeno a casa. T’ sì fort. T’al digh me. Ce ne sono solo due pericolosi, gli altri sono tutti beccafichi. Il più forte è un veneto della Padovani, al s’ciama Bianchetto. E’ furbo e mi hanno detto che qualche volta ha battuto anche Beghetto. L’altro l’è anca lù veneto. Non mi ricordo il nome. So che è di Villasanta. Corre in pista da poco ma al g’ha na potensa … però manca di esperienza". Il Cappi confuse Villasanta (centro vicino a Monza) con Villafranca in provincia di Verona e il potente inesperto era un certo Sante Gaiardoni.

Enrico non tradì le aspettative: primo Sergio Bianchetto, secondo Enrico Castoldi, terzo Sante Gaiardoni.

Il vecchio Cappi pianse di gioia.

Nel 1958 Enrico passò tra i dilettanti e patì il salto di categoria tanto che, nel 1959, accettò di trasferirsi all’Azzini del commendator Cappellaro. La stella della società nerazzurra era diventato nel frattempo Sante Gaiardoni ed Enrico divenne un comprimario.

Il Cappi ci patì moltissimo, forse per un po’ di tempo gli tolse anche il saluto ma, un giorno di maggio, disse a Giorgio Pambieri, fratello di Piero e autista nelle trasferte del fratello: "Domenica c’è una tipo-pista a San Matteo delle Chiaviche. Io non vengo con voi perché è una trasferta un po’ lunga. Puoi portare con voi anche quel pirla di Castoldi? E’ andato all’Azzini ma, in fin dla fera l’è semper n’amìgh".

Fu così che partimmo all’alba di una domenica mattina sulla "600" grigia con tetto color carta da zucchero di Giorgio. Biciclette sul portapacchi, Giorgio al volante, Piero di fianco, Enrico ed io dietro tra le borse.

Non avevamo mai sentito nominare San Matteo delle Chiaviche ma Giorgio aveva scoperto che era una frazione di Viadana, in provincia di Mantova, per cui il percorso era: via Emilia fino a Casalpusterlengo, Codogno, Viadana, San Matteo.

A quell’epoca la via Emilia attraversava il centro di Lodi e, quando arrivammo all’altezza del cimitero Enrico ci annunciò con un certo rammarico: "… e pensare che io stasera alle sei avevo un appuntamento con una bella ragazza proprio qui, davanti al cimitero di Lodi … ". Un "ma va!" collettivo seguì l’annuncio,

All’uscita di Lodi, su un tratto di strada in porfido, sentimmo un improvviso rumore metallico sul tetto della "600". Giorgio bloccò appena in tempo. Il portapacchi con le bici si era sganciato e stava scivolando indietro. Lo bloccammo miracolosamente quando era già all’altezza del lunotto.

Fortunatamente non ci furono altri intoppi e giungemmo finalmente a San Matteo delle Chiaviche verso mezzogiorno. Trovammo una stupenda trattoria di campagna con tanto di bersò, sedie impagliate, tovaglia a quadretti bianchi e rossi, bicchieri capovolti,segnati dal lungo servizio, saliera, oliera e vasetto di stuzzicadenti di legno senza involucro di carta. La cucina aveva la porta aperta e le pareti denunciavano anni di generosa militanza senza alcuna imbiancatura. I profumi erano meravigliosi. Giorgio ed io ci permettemmo tortelli di zucca con un bis che sembrava un tris, diverse fette di punta ripiena con contorno di erbette e una porzione gigantesca di torta sbrisolona. Enrico e Piero consumarono un anonimo pasto da atleta. Morale: cinquecento lire a testa, uno per l’altro.

Nel pomeriggio si svolsero le gare e i risultati rispettarono le previsioni. Piero vinse la sua batteria della velocità Allievi e giunse secondo in finale, battuto dal mantovano Foresti, idolo locale. Enrico, invece, dopo avere vinto la batteria, si impose nella finale della velocità Dilettanti rifilando al secondo tre o quattro macchine di distacco.

Né Piero né Enrico disputarono la corsa a punti un po’ perché a loro poco congeniale e un po’ perché si stava facendo tardi. Uno degli organizzatori ci consigliò di non fare la strada del mattino ma di andare a Parma e prendere l’autostrada per Milano e così facemmo.

Poco dopo la partenza mi lasciai sfuggire: "Facendo questa strada passiamo proprio sotto casa di due ragazze di Parma che ho conosciuto la scorsa estate. Sono due sorelle molto simpatiche".

"Dai, dai – saltò su Enrico – fermiamoci a salutarle". Non so perché ma rimpiansi di essermi lasciato sfuggire quelle parole.

Quando arrivammo a Parma era buio. Mi salvai in corner: "No, non possiamo fermarci. E’ ora di cena. Saranno a tavola".

Imboccammo l’autostrada. All’altezza del casello di Casalpusterlengo, Enrico ebbe un’altra idea: "Giorgio, esci al casello di Lodi. Passiamo dal cimitero, magari è ancora là che mi aspetta".

Io alzai gli occhi al cielo, Piero brontolò qualcosa, Giorgio, che era una pasta di ragazzo, accettò.

Uscimmo al casello di Lodi, attraversammo la città e arrivammo al cimitero. La ragazza non c’era. Mi sembrò di intuire che, come me, anche Piero e Giorgio nascondessero un intimo senso di soddisfazione.

 

24 settembre 2010