Nonno Peppino

 

Nonno Peppino era nato il giorno di Santa Lucia del 1893. A sedici anni aveva conosciuto nonna Adele, di un anno più giovane. Nonno Peppino era decisamente un bel ragazzo: lineamenti delicati, capelli castani ondulati, occhi castani con sfumature verdi, statura sul metro e settanta, baffetti sbarazzini appena accennati. Nonna Adele era una ragazzina sul metro e sessanta, forse meno, formosetta quanto bastava per attirare le attenzioni dei garzoncelli. I capelli erano biondi, il viso tondeggiante e gli occhi erano grigi, chiarissimi. Nell’estate del 1912, si sposarono e andarono a vivere a casa dei genitori di lui, a Campore, una frazione di Salsomaggiore. A settembre del 1913 nacque mio padre.

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Nonno Peppino trovò lavoro come cantoniere alle dipendenze della Provincia di Parma anche perché suo padre, Giovanni, era capocantoniere provinciale, responsabile del tratto Fidenza-Salsomaggiore.

Nonna Adele fu assunta come guardarobiera alle Terme Berzieri. Insomma, i due ragazzotti, non potevano proprio lamentarsi. La tranquillità purtroppo durò poco: nonno Peppino partì per la Grande Guerra. Nonna Adele fu licenziata dalle Terme Berzieri a causa di una riduzione del personale però, grazie al suo titolo di studio – terza elementare – trovò lavoro presso l’ufficio postale di Campore.

Nonno Peppino, che, nel frattempo aveva fatto crescere due baffi alla Umberto I, era al fronte, dove non riuscì a coprirsi di gloria: era in cucina. Però, pur essendo cuciniere, trovo il modo di beccarsi una palla vagante vicino alla spalla sinistra. A guerra finita, senza avere sparato un colpo, tornò a casa con il grado di sergente, una croce di guerra e una medaglia ricordo "coniata nel bronzo nemico". Penso che avrebbe fatto volentieri a meno di tutto ciò anche perché la Grande Guerra gli tolse la gioia di vedere crescere suo figlio. Questo fatto lo portò a stravedere per i bambini.

Passò il tempo. I baffetti non erano più alla Umberto I ma assunsero una foggia più normale. Fu promosso capocantoniere e gli fu assegnata la tratta Langhirano-Pastorello, sei chilometri di strada bianca con trecento metri iniziali in asfalto rattoppato. Fu così che la piccola famiglia si trasferì a Langhirano.

Nonno Peppino era capace di fare tutto: il muratore, l’elettricista, il meccanico, il ciclista. Però il suo mestiere preferito sarebbe stato il falegname. Era bravissimo: costruì da solo tutto l’arredamento di casa con mobili in stile "Peppino", alti, grandi, massicci, curati nei minimi particolari.

Amava lo sport. Gli piaceva il calcio; era tifoso del Genoa e seguiva assiduamente la squadra locale. Nuotava come un pesce e amava pescare "a mano" nei "fondoni" del torrente. Era un appassionato cacciatore, di quelli che sparano poche cartucce in una stagione e amano vedere lavorare i cani. Era un ottimo tiratore e si cimentava volentieri nelle gare amatoriali di tiro al piattello. Una volta, non ancora quarantenne e di aspetto giovanile, portò anche mio padre ad una gara. Papà sparò piuttosto bene per cui uno dei presenti esclamò: "Oh, Pepino. Al tira ben so fradèl".

Però il suo sport preferito era senz’altro il ciclismo. Aveva cominciato a seguirlo agli inizi del 1900, quando a Salso si diceva: "Ganna e Galetti en brèv coridòr ma quand a passa Gerbi al va pù che ‘l vapòr".

Il Diavolo Rosso divenne il suo idolo, poi simpatizzò per lo sfortunato Brunero, quindi amò infinitamente l’eleganza e la classe di Binda per terminare a tifare Bartali, Bartali a qualunque costo in una sorta di fanatismo che giungeva anche a negare l’evidenza.

Nonno Peppino era un bartaliano circondato da coppiani. Abitava a pianterreno in una casa a tre piani contornata da orti e giardini. Al piano sopra abitava il signor Armando, cassiere presso la succursale locale della Cassa di Risparmio di Parma. Il signor Armando, che era stato in passato sostenitore di Guerra, era un fervente ammiratore di Coppi. All’ultimo piano abitava la signora Matilde, che tutti, non si sa perché, chiamavano Metilde. Era la madre del proprietario di casa, il signor Mario. Mario Calzetti viveva e lavorava a Genova dove si sfiniva a pitturare appartament.i La Metilde era coppiana come il signor Mario che, quando tornava a casa da Genova accendeva grandi discussioni con nonno Peppino. La casa più vicina era abitata da una sola famiglia. Giuseppe era il capofamiglia, Ismele la moglie, Ennio il figlio maggiore e Gina la figlia minore. Il loro cognome era Coppi e lascio immaginare per chi tifassero.

Erano gli ultimi anni ’40, la rivalità tra Bartali e Coppi era salita ai massimi livelli ed il ciclismo era di gran lunga lo sport più popolare. Era tanto popolare che in tutto il parmense si svolgevano quasi ogni domenica gare amatoriali … spontanee alle quali partecipavano tutti senza limiti di età, senza licenze, con qualsiasi tipo di bicicletta.

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Una sera d’estate del 1948, dopo il trionfo di Bartali al Tour, un gruppo di persone, sedute in giardino, chiacchierava godendosi un po’ di fresco, quel fresco fornito dal "marino" quell’aria che dal mare, attraverso il passo del Lagastrello e il Passo del Cirone, scendeva a valle a nobilitare la stagionatura dei prosciutti locali. C’erano nonno Peppino, nonna Adele, il signor Armando, Coppi, la Metilde e il signor Mario che era tornato da Genova per qualche giorno di riposo.

Fu così che venne fondata la squadra ciclistica locale. Si giunse infatti alla decisione dopo avere considerato che era inutile che i giovani locali andassero a misurarsi in gare senza alcuna regola e senza nessun riconoscimento. In paese c’erano sette o otto ragazzotti disponibili, felicissimi di entrare a far parte di una squadra vera.

Per il nome fu scelto "Società Ciclistica Arnaldo Calzetti". Arnaldo Calzetti, figlio della Metilde e fratello minore del signor Mario, era stata l’unica gloria ciclistica langhiranese. Era stato un ottimo dilettante negli anni ’30, aveva vinto parecchie corse ma una pleurite contratta probabilmente dopo un allenamento sotto la pioggia e non riconosciuta dai medici lo portò tragicamente alla tomba.

Poi vi fu il momento della scelta dei colori sociali. Il signor Mario propose l’amaranto con fascia gialla e blu esattamente come l’Audax, la squadra per la quale correva il fratello Arnaldo. Malgrado fossero tutti d’accordo si optò poi per l’amaranto con fascia bianca perché le maglie così concepite costavano di meno di quelle con la fascia di due colori.

Intanto l’organico della squadra era già al completo: otto ragazzi con due capi squadra. Il primo era Brunòn, un traccagnotto robusto sul metro e sessantacinque, pieno di muscoli cresciuti coltivando alcune biolche di terra al confine sud del paese. Brunòn doveva essere la punta veloce. Il secondo caposquadra era "Raspi", alto sul metro e settantacinque, magro, elegante in bici, col viso scavato ed un naso lungo ed affilato che giustificava ottime speranze. Il soprannome "Raspi" gli era stato probabilmente affibbiato per la sua abituale frequentazione delle balere dove, a quei tempi, spopolavano il boogie woogie, lo spirù e, appunto, la raspa.

L’ultima decisione da prendere fu quella sulle biciclette. Certo, abbigliamento e biciclette erano a carico dei corridori ma che marca di bici scegliere? A Langhirano c’erano tre ciclisti: Vignali che, oltre alle riparazioni, rivendeva bici di varie marche, Leoni, che montava e vendeva le bici con il suo marchio ma che ormai snobbava un po’ le biciclette per dedicare il suo tempo alla riparazione delle motociclette, e poi c’era Bovis, che abitava di fronte alla casa Calzetti. La scelta cadde su Bovis. Bovis lavorava in una minuscola officina ricavata alla base della torre dell’orologio, in piazza Garibaldi. Le bici della squadra furono pronte in pochissimo tempo infatti, una volta avuti i telai, Bovis lavorò giorno e notte e ne ultimò otto per la squadra e una da esporre a turno nelle vetrine di tutti i negozi del paese.

Le bici erano blu, manubrio Ambrosio, nastro Gaslo, freni Universal, guarnitura Magistroni 48 denti, catena e ruota libera Regina a quattro pignoni (15, 17, 19, 21), cambio Campagnolo a doppia leva, sella Aquila perché la mitica Brooks costava uno sproposito.

Dal momento che la squadra era alle primissime armi, non fu fatta l’affiliazione all’U.V.I. (Unione Velocipedistica Italiana) ma alla D.A.C.E. (Delegazione Amatori Ciclismo Enal) quella che diversi anni più tardi sarebbe diventata U.D.A.C.E.

L’esordio della squadra avvenne, se non ricordo male, a San Michele di Tiorre su un percorso difficile sia per le salite sia per le strade sterrate. Gino Gallani, il piccolo fotografo di Langhirano, appassionatissimo di ciclismo, scattò moltissime foto prima della partenza: la squadra, i singoli corridori, i dirigenti, i particolari delle biciclette e delle maglie. Fece bene Gallani perché all’arrivo giunse un solo corridore in maglia amaranto-bianca, Flip (Filippo). Brunòn, il velocista, prima di metà gara, giunto nei pressi di un’osteria, sterzò, appoggiò la bici ad un albero, si sedette sotto il bersò, ordinò due birre e tornò a casa. Altri corridori si staccarono in salita e, al primo passaggio da San Michele, si fermarono a fare da spettatori. Raspi, invece, più adatto a quel tipo di percorso, restò nel primo gruppo fino a metà gara poi forò. Cambiò subito il tubolare e riuscì ad agganciare il secondo gruppo, resistette alla selezione in salita ma nella successiva discesa che portava al traguardo forò nuovamente. Non aveva altri tubolari e così giunse al traguardo a piedi quando la corsa volgeva al termine. Fu considerato un eroe.

L’attività dei ciclisti dell’Arnaldo Calzetti proseguì: molti ritiri, molte forature, diverse cadute nel ghiaietto, qualche piazzamento nei primi dieci. Nel circuito di Corcagnano, Brunòn, il velocista della squadra, piazzò lo sprint vincente … peccato che non si fosse accorto che erano in fuga in sette.

E venne il 1949, l’anno di Coppi. Nonno Peppino soffriva in silenzio e agli sfottò dei numerosi sostenitori di Fausto non sapeva come replicare ma si limitava a ripetere: "A vrè vèder Coppi con sinc an in pù" (vorrei vedere Coppi con cinque anni di più)".

Quando Coppi finì il Tour in maglia gialla gli sfottò non si contarono più. Nonno Peppino non reagiva, chiuso in uno strano silenzio. "Adèsa al perla pù. – ribadì più volte il signor Armando tra le risate degli amici – Coppi l’è ‘na roba diversa, l’è d’ n’elter mond (Coppi è una cosa diversa, è di un altro mondo)".

Nonno Peppino non aveva la forza di ribattere solo perché il male se lo stava portando via: una setticemia a seguito di un dito punto da una spazzola di ferro arrugginito mentre stava spazzolando la ringhiera del ponte sul Rio Fabiòla. Il 9 agosto 1949, nonno Peppino moriva all’Ospedale Maggiore di Parma per una banalità non riconosciuta in tempo dai medici.

Due mesi dopo, l’Arnaldo Calzetti organizzò un circuito cittadino, primo premio un Trofeo dedicato a nonno Peppino. I ragazzi locali cercarono di favorire una lunga fuga di Raspi che però venne ripreso a due chilometri dall’arrivo: volatona a ranghi quasi compatti e Brunòn trovò il guizzo della vita. Piangeva Brunòn sul podio e piangeva nonna Adele nel consegnargli la coppa del vincitore.

La vita dell’Arnaldo Calzetti ebbe fine prima dell’estate del 1950. Mancavano soldi, dirigenti e corridori con voglia di sacrificarsi. Brunòn vendette la sua bici a Minghetti, un dilettante di Sala Baganza e Raspi sostituì alla sua il manubrio da corsa con uno da viaggio, mise i parafanghi; la usò per spostarsi in paese senza mai utilizzare il Campagnolo a doppia leva.

 

8 maggio 2011