Il "Lombardia" di Renzo Soldani

 

C’era praticamente tutta la "crema" del ciclismo internazionale, quella mattina dell’ottobre 1950, alla partenza del Giro di Lombardia, unici assenti importanti i belgi Alberic "Brick" Scotte, neo campione del mondo, e Rik Van Steenbergen. Una leggera foschia sfumava i contorni dei palazzi di corso Sempione; era una sbiadita anteprima della "scighéra", il classico nebbione autunnale della Milano di quei tempi, che da lì a poco avrebbe imperversato sul capoluogo lombardo con la complicità dell’accensione degli impianti di riscaldamento a quei tempi tutti a carbone o gasolio. La carovana si mosse dall’arco della Pace verso la periferia per prendere la partenza da via Montefeltro verso il Varesotto. La guidavano i corridori della Bianchi con Coppi numero 1 per avere vinto la precedente edizione, anzi tutte le edizioni dal 1946 al 1949. Dietro Fausto ed il fratello Serse, c’erano Conte, Carrea, Milano, Crippa, Pasquini e il giovane brianzolo Donatone Piazza. Poi sbuffava la mitica "Checca", l’ammiraglia così soprannominata dal suo autista Gino Oriani, sulla quale, in piedi, trepidava il diesse Giuànn Tragella che sognava una fantastica cinquina del suo asso. I corridori della Bianchi erano preceduti dall’auto del direttore di gara e da una Fiat "Giardinetta" dal cui tetto decappottabile spuntavano l’operatore e la mastodontica cinepresa della "Settimana Incom". A brevi intervalli seguivano tutte le altre squadre: i rossoalabardati della Wilier Triestina con Magni e il tricolore Bevilacqua, i grigiorossi della Frejus con Ferdy Kubler, fresco vincitore del Tour dopo i fattacci dell’Aspin, i grigioblu dell’Atala con un Vito Ortelli in evidente calo, i giallorossi di Learco Guerra con Hugo Koblet fresco vincitore del Giro e idolo delle donne, e poi Taurea, Ganna, Lygie, Arbos, Viscontea, Stucchi, Cimatti, Bottecchia, Fiorelli, Benotto, Girardengo. Poi c’erano i gialli della Bartali con il vecchio Gino che, dopo avere sorprendentemente vinto in una volatona di gruppo la "Sanremo", aver rischiato di vincere il Giro e avere perso il Tour, sempre per via dell’Aspin, malediva in cuor suo quei sessanta chilometri che separavano la vetta del Ghisallo dal Vigorelli, durante i quali l’unica asperità era il Ponte della Ghisolfa. Infine, in piedi su quel macchinone soprannominato "Norge", c’era lui, il grande vecchio, Eberardo Pavesi, "l’avocàtt", direttore sportivo della Legnano. Pavesi, da due anni orfano del "suo" Bartali, che aveva voluto mettersi in proprio, aveva come capo squadra Adolfo Leoni, bravissimo al Giro del 1949, ma ormai a fine carriera e, comunque, poco adatto alle corse a tappe. Le finanze della Legnano non erano paragonabili a quelle della Bianchi per cui l’anziano diesse doveva ingegnarsi a scoprire giovani talenti e lo faceva in maniera mirabile. Fin troppo! La Legnano, in quel Giro di Lombardia, accanto ai collaudati Leoni, Salimbeni, Frosini e Sabatini, schierava sei autentiche promesse: Pasqualino Fornara, Giorgio Albani, Giuseppe Minardi, Renzo Soldani, Loretto Petrucci e Tranquillo Scudellaro. Troppi galletti nel pollaio e l’avocàtt lo sapeva benissimo. Pasqualino Fornara da Borgomanero era l’unico che pareva avere le doti del corridore adatto alle corse a tappe; aveva il viso affilato ed un naso abbastanza importante, le spalle un po’ strette e spioventi e, a sentire i tecnici, "un gran bel giro di gamba". Scudellaro, Tranquillo di nome e di fatto, era un veneto trapiantato nel lodigiano, per il quale tutti prevedevano un futuro da gregario di qualità. Gli altri quattro giovani di belle speranze avevano caratteristiche abbastanza simili; erano adatti alle gare di un giorno e piuttosto abili a districarsi nelle volate a ranghi ristretti. Il monzese Albani, classe 1929, era un corridore molto intelligente; aveva il viso pulito da impiegato di banca a cui mancavano solo gli occhialini (che avrebbe poi messo con il passare degli anni) per sembrare un perfetto ragioniere. Giuseppe "Pipaza" Minardi, classe 1928, ravennate, era un combattente versatile con lo sguardo sveglio e la mascella volitiva del bagnino romagnolo. I dubbi dell’avocàtt erano, a dire il vero, focalizzati sui due toscani, entrambi pistoiesi, che già avevano dato segni di insofferenza, sia da dilettanti sia da professionisti. Nel cervello di Pavesi frullava da tempo l’idea di lasciarne a casa uno, se non tutti e due. Loretto Benito Petrucci da Capostrada, classe 1929, aveva il viso ovale e liscio; con dei boccoli biondi, al posto dei capelli lisci neri, sarebbe stato un putto perfetto fuggito da qualche chiesa. Renzo Soldani da Cireglio, classe 1925, era il più vecchio di quel gruppo di giovani; non aveva avuto una vita facile: figlio di un mugnaio, non volle saperne di farina e macine, fece il motorista al campo di volo di Pistoia, poi, dopo l’8 settembre, lavorò per i tedeschi, quindi si diede alla macchia e, infine, fu catturato e spedito in campo di concentramento; fortunatamente riuscì a tornare a casa all’inizio del 1946. Il suo viso era squadrato e presentava lineamenti crudi e severi: sembrava uscito da un dipinto del Masaccio.

Ma torniamo alla corsa. Dopo le solite scaramucce iniziali andò in fuga Alfredo Pasotti da Bastida Pancarana. Il piccolo corridore pavese venne ripreso all’inizio del Ghisallo da Coppi, Bobet, Minardi e Soldani mentre Bartali, vittima di una foratura e di successivi guai meccanici, imprecava alla sfortuna e al cambio "Cervino".

Il grande Fausto si era preparato al meglio per quel "Lombardia". Si era ripreso bene dopo la caduta al Giro e si era organizzato in maniera maniacale, dalla bicicletta all’equipaggiamento. Nessuno come lui, a quei tempi, era attento ai minimi particolari. Sulla bici non aveva voluto nulla di superfluo: una leggerissima pompa "Impero" sul tubo traverso invece del pesante gonfleur e un solo tubolare di scorta piegato strettissimo e legato dietro la sella. Non aveva nessuna borraccia né sul manubrio né sul telaio, evitando così anche il peso del portaborraccia. Una borraccia di allumio però l’aveva: in una delle tasche posteriori ed era piena solo per un terzo. Risparmiava così circa tre etti di peso. Poi aveva inviato sul percorso, in luoghi ben precisi, alcuni collaboratori fidati, ognuno con una borraccia sempre piena solo per un terzo. Il cambio era il mitico "Paris-Roubaix" che Tullio Campagnolo aveva prodotto proprio quell’anno: una sola leva che svolgeva le stesse funzioni delle due leve adottate in precedenza, un gioiello di meccanica. Un deragliatore "Simplex", montato sul tubo piantone, gli consentiva di scegliere quale delle due moltipliche usare. L’abbigliamento era il solito: maglia di lana a cinque tasche con le due anteriori vuote a abbottonate (qualcuno disse che erano state addirittura cucite) per non ingoiare vento, cappellino a spicchi bianchi e celesti con la visiera sulla nuca "alla belga". Una preparazione maniacale!

Preso e staccato il Pasottino, Bobet ruppe quattro raggi e si ritirò quando Hugo Koblet, per problemi di stomaco a causa di due uova mangiate la mattina, aveva già preso la strada dell’albergo. Cedette anche Minardi e restarono soli Coppi e Soldani. Qualcuno raccontò poi di una offerta di Coppi a Soldani: duecentomila lire per lasciarlo passare primo sul Ghisallo. Verità o fantasia? Vero è che, prima della chiesetta, Soldani si staccò leggermente per problemi allo stomaco, Coppi non se ne accorse e il verdeoliva, rientrato, cercò di sprintare al gipiemme ma passò primo Fausto di mezzo metro e poi via verso Milano! Soldani tirava cento metri e Coppi cinquecento. Fausto, ogni tanto, invitava il compagno di fuga a tirare ma senza insistere troppo. Soldani stava nella scia, seguendo anche le istruzioni che Pavesi gli urlava dal "Norge". Era il gioco delle parti.

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Alcuni passaggi a livello chiusi favorirono gli inseguitori, anche se i due fuggitivi ne superarono un paio in acrobazia, senza scendere di sella, con i militi della Stradale che alzavano le sbarre quanto bastava. Alle loro spalle si formò una coppia stranamente assortita: Bevilacqua e Zampini. Toni Bevilacqua, tricolore in carica, era un grande passista, massiccio e potente mentre Donato Zampini da Saronno era un piccoletto agile che amava le salite. I due inseguitori raggiunsero la coppia di testa alla periferia di Milano con il gruppo ormai alle calcagna. Coppi buttò via l’ultima borraccia e il berrettino. Al Vigorelli entrò in testa Zampini, seguito da Bevilacqua, Coppi e Soldani. Ai trecento metri Zampini, esausto, si rialzò, Coppi affiancò Bevilacqua alla campana. Toni rispose a Coppi allargando quel tanto che bastò a Soldani per infilarsi alla corda e vincere, mentre entrava in pista il gruppo degli inseguitori: primo Soldani, secondo Bevilacqua, terzo Coppi, quarto Zampini.

Coppi non fece una piega: "Destino! Lui ha fatto la sua corsa. Non gli si può rimproverare nulla. Ho sbagliato io. Mi dovevo accorgere della sua piccola crisi sul Ghisallo e andare via da solo. E poi … quattro passaggi a livello chiusi, quattro …".

Alla pacatezza di Fausto faceva riscontro un diesse Zambrini incavolatissimo: "Dal Ghisallo a Milano Soldani ha fatto il vagone e Coppi la locomotiva ed è arrivato primo il vagone".

La vittoria nel Giro di Lombardia fruttò a Soldani un contratto biennale con la Legnano. La stella del giovane pistoiese continuò a splendere all’inizio del 1951 con le vittorie nella Sassari-Cagliari e nella Firenze-Roma, poi ebbe un appannamento. Tornò in forma nel Lombardia quando, in leggero ritardo per guai meccanici, fece una scalata eccezionale del Ghisallo che fece dire a Bartali: "State bene a sentire quello che v’ ha da dire ‘l vecchio Gino. ‘n vita mia n’ ho visti pochi andare ‘n salita come ‘l Soldani oggi. L’è rimasto ‘ndietro ai piedi del Ghisallo, ‘un ha fatto miha ‘na piega. L’ha iniziato a salire col su’ ritmo, composto e potente. E che agilità! Tic,tic,tic,tic …".

Ma come finì la corsa? Al Vigorelli arrivò un gruppetto con ben tre "ramarri", Minardi, Soldani e Fornara e il vecchio Pavesi si fregava già le mani ma i tre non si capirono, o non si vollero capire; morale: primo Bobet, secondo Minardi, terzo Coppi, quarto Soldani.

Quello fu l’ultimo acuto di Renzo Soldani. Il 1952 fu l’ultimo anno alla Legnano: assolutamente incolore. Poi vestì i colori della Levrieri, della Bottecchia, della Doniselli-Lansetina e della Welter ma non ritornò più ai livelli del 1950. Chiuse praticamente la carriera a soli trent’anni.

 

30 agosto 2011