Il buco della Giacoma

 

"Il buco della Giacoma" è il titolo di un libro di Giorgio Torelli, giornalista e scrittore parmigiano, classe 1928. Qualche giorno fa, nel mettere un po’ di ordine tra i miei libri, me lo sono ritrovato in mano. L’ho aperto per leggere qualche riga e, così, ho finito per rileggerlo tutto per la quarta volta. Torelli, con arguzia, spirito di osservazione, nostalgia moderata e sottile ironia ricorda la vita di una volta raffrontandola con quella attuale.

I disegni di Remo Gaibazzi rendono ancora più piacevole la lettura del libro.

Perché "il buco della Giacoma"? Torelli lo spiega così: "… il buco della Giacoma, quell’angolo divinatore di cielo (a sud-ovest guardando) che s’incupisce se il nostro fato sarà maligno e si rovesceranno tuoni e fulmini sulla città; ma che si stempera ed è mitissimo se non accadrà niente di niente".

Il buco della Giacoma, anzi "al buz dla Jacma" in dialetto, non era riservato a Parma città ma lo si interrogava anche dalle campagne come fosse l’ufficio meteorologico. A Langhirano, dove passavo le lunghe vacanze estive a casa di nonna Adele, "al buz dla Jacma" era facilmente individuabile: era quella porzione di cielo sovrastante i primi contrafforti dell’Appennino, delimitata verso sud dalle ultime propaggini della pineta di Cozzano e verso ovest dalla svettante chiesetta di Castrignano. Dall’altra parte dell’Appennino nasce il cosiddetto "marino", quella brezza benefica che, dal mare, attraversa la Lunigiana, scavalca i passi del Cirone e del Lagastrello e si incanala lungo le vallate dei torrenti Parma e Baganza per scendere a massaggiare sapientemente i prosciutti in fase di stagionatura.

Nonna Adele osservava spesso "al buz dla Jacma", specialmente se il tempo era incerto, per programmare le sue attività domestiche come il bucato con la cenere, la produzione della marmellata di amarene o la lunga camminata per recarsi alla fattoria degli Zinelli a comprare le uova fresche di giornata.

Un venerdì del luglio 1960, il cielo grigio pareva volermi sconsigliare di affrontare la solita uscita in bicicletta. La domenica successiva avrei dovuto correre il circuito di Calestano e un buon allenamento sarebbe stato veramente necessario. "Nonna, che dici? Vado?". Nonna Adele lasciò pentole e fornelli, si arrotolò il grembiule attorno alla cintura: "Andéma a vedr’ al buz dla Jacma". Uscimmo dal cortile per trovare la posizione giusta e scrutammo il cielo, poi nonna Adele sentenziò: "L’è bel. Va pur tranquil ca ‘n piova miga".

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Fu così che, da solo dopo il rifiuto dei miei abituali amici di allenamento, orientai il manubrio verso sud, destinazione Corniglio, ventisette chilometri per passare da 250 metri sul livello del mare ai 700 metri. Niente di che, ma il percorso vallonato con curve e controcurve era perfetto per un buon allenamento. Tra sole e nuvole arrivai a Corniglio di buon passo. Mi fermai giusto il tempo di riempire la borraccia ad una delle quattro cannelle della fontana posta sotto le mura del vecchio castello e iniziai il ritorno. Dopo alcuni chilometri, uscendo dalla stretta valle del Pratica immersa in fitti castagneti, mi accorsi che il cielo era improvvisamente diventato completamente plumbeo. Nuvoloni minacciosi correvano spinti dal vento. Mi misi a pedalare con vigore in una sorta di "cronometro" contro il maltempo. Mancavano ancora una ventina di chilometri quando si scatenò il finimondo. Non ebbi nemmeno il tempo di ripararmi presso qualche casa che in un attimo ero già bagnato da capo a piedi. Fradicio per fradicio decisi di continuare. Il vento cambiava continuamente direzione. A volte dovevo pedalare con vigore in discesa per poi, magari, superare a ruota libera qualche zampellotto. La maglia di lana era fradicia così come la sottostante canottiera. Lungo la schiena sentivo i brividi provocati dalla "riga" d’acqua alzata dalla ruota posteriore. Gli scarpini erano pieni d’acqua e avevo la sensazione che uscissero zampilli dai fori della tomaia. La cosa più difficile, però, era riuscire a vedere qualcosa. Avevo dovuto togliere gli occhiali da sole perché le lenti scure su cui scorrevano rivoli d’acqua mi rendevano praticamente cieco. Senza occhiali, però, era praticamente impossibile tenere aperti gli occhi. Trovai un compromesso abbassando il più possibile la visiera del cappellino di tela in modo da riuscire a distinguere qualcosa in un complesso esercizio di strabismo. Mentre pedalavo di lena e l’arrivo si avvicinava mi facevo mentalmente la cronaca della corsa in toni drammatici come fosse stata la famosa tappa del Bondone. Meno quindici chilometri, meno dieci, meno cinque, meno due. All’ultimo chilometro mi rialzai e a cento metri dal cancello della casa di nonna Adele smisi di pedalare. Entrai nel cortile, appoggiai la bici al muro e, con le scarpe che facevano cik ciak, entrai in cucina. Un rivoletto scese dalla visiera del cappellino e disegnò un laghetto a terra mentre il pavimento circostante si copriva di gocce. In cucina faceva caldo. Sulla stufa economica il pentolone con lo stracotto era in "esercizio" da più di otto ore dispensando intensi e meravigliosi profumi. Nonna Adele, con tagliere, mattarello e stampi stava facendo gli anolini.

Credo di averla guardata con aria di rimprovero, tanto che allargò le braccia con le mani ancora sporche di farina: "Co’ vot ca t’ dìga? Tutt il régoli han la so eceziòn".

 

21 aprile 2012