Quando torna primavera

 

"Quando torna primavera" è il titolo di un film di Lloyd Bacon del 1949, nel quale Ray Milland interpreta la parte di un professore di chimica appassionato di baseball che, ogni anno, a primavera, con l’inizio del campionato, cambia umore, diventa distratto tanto è interessato alle vicende della squadra locale. Un evento fortuito lo porterà a diventare un asso del baseball, grazie ad un curioso trucchetto. Riuscirà, peraltro, a vincere il campionato anche senza la truffa e si giungerà così all’immancabile lieto fine con il protagonista che sposa la deliziosa Jean Peters.

Beh, devo confessare che, anch’io come quel professore di chimica, quando torna primavera percepisco qualcosa di diverso. Quando torna primavera sento profumo di Giro d’Italia. Lo sento da tanti anni. Mamma mia, lo sento da più di mezzo secolo.

Effettivamente il Giro d’Italia profuma di primavera in tutti i sensi e non solo perché il suo svolgimento occupa tradizionalmente buona parte di maggio.

Il Tour è certamente la corsa più importante del mondo ma odora di sudore, calura, cotte, solleone, sole giallo come la maglia del primato.

Il Giro è più agile, fresco, colorato, forse anche più valido sotto il profilo tecnico del percorso, profuma di primavera come la sua maglia rosa.

Dicevo che nella mia vita c’è stato il Giro d’Italia per più di mezzo secolo.

Veramente dei Giri dal 1946 al 1949 quello che so l’ho letto in epoche successive ma dal 1950 … eh, no … dal 1950 in poi posso dire di averli seguiti tutti.

Quanti sono perciò? Quello di quest’anno è il cinquantacinquesimo!

Nel 1950 frequentavo la seconda elementare e, in classe, ero uno dei pochi bartaliani superstiti perché ormai i ragazzini erano quasi tutti tifosi del grande Fausto Coppi.

Coppi era reduce da un 1949 strepitoso: aveva vinto "Sanremo" e "Lombardia", aveva vinto, per primo al mondo, Giro e Tour nello stesso anno, aveva vinto la maglia iridata dell’inseguimento su pista, non aveva vinto il titolo mondiale su strada solamente perché il circuito iridato di Copenaghen, ignobilmente piatto, aveva permesso ai più veloci Van Steembergen e Kubler di mettere sul traguardo le loro ruote davanti alla sua.

Ma a me piaceva il vecchio Gino, quel vecchiaccio che, incurante delle quasi trentasei primavere, aveva beffato tutti alla Milano-Sanremo, battendo in una affollatissima volatona di gruppo velocisti del calibro di Rik Van Steembergen e Oreste Conte.

Il Giro 1950 era stato disegnato in maniera inconsueta: per onorare l’Anno Santo era prevista la conclusione a Roma, quindi, partenza da Milano, Dolomiti a metà Giro, qualche salita appenninica e arrivo finale a Roma.

Poche salite e nessuna cronometro per non favorire il grande Fausto che, se in grande forma come nel 1949, avrebbe potuto togliere interesse alla corsa.

Si ripeteva un po’ quello che avvenne nel 1930 con Binda. Il grande Alfredo era stato, infatti, pagato dall’organizzazione per non partecipare al Giro, al fine di non affievolirne l’interesse. Nel 1950 molte cose erano cambiate, non si poteva pagare Coppi perché restasse a casa, però si poteva studiare un percorso penalizzante per il Campionissimo.

Il vecchio Gino, dal canto suo, era ancora più scontento di Fausto. Il toscano avrebbe voluto salite dalla prima all’ultima tappa ma dovette fare buon viso a cattivo gioco, anche perché doveva portare in giro per l’Italia la sua gialla bicicletta "Bartali", che aveva tanto bisogno di pubblicità.

E, allora, pronti e via per la prima tappa con quindici squadre e centocinque atleti.

La Bianchi di Coppi si presentava fortissima con Serse Coppi, Andrea Carrea, Ettore Milano, Fiorenzo Crippa ed il belga Desirè Keteleer interamente votati all’Airone Coppi ed il solo Oreste Conte, ottimo velocista, libero di giocarsi le sue carte negli arrivi in volata.

Bartali non poteva contare, nella squadra che dal 1949 portava il suo nome, su elementi altrettanto forti ma, abituato com’era a giocarsi le sue carte più individualmente che con il gioco di squadra, gli erano sufficienti Mario Gestri, Attilio Lambertini, Angelo Brignole, Bruno Giannelli, Mario Baroni e soprattutto il riccioluto e taciturno Giovannino Corrieri, non tanto per l’aiuto che avrebbe potuto dargli in salita quanto per l’eccezionale feeling sorto tra i due.

Anche la Wilier Triestina di Fiorenzo Magni non appariva molto forte malgrado la presenza di Toni Bevilacqua, grande passista ma negato all’esercizio in salita.

C’erano poi la Legnano dei giovani, guidata dal non più giovane velocista Adolfo Leoni, la Taurea con Alfredo Martini e Luciano Maggini, l’Atala con Vito Ortelli, grande promessa del primo dopoguerra, la Ganna, con l’estroso ma ormai stagionato Aldo Bini, la Frejus, capitanata dal rampante svizzero Ferdy Kubler, la Bottecchia con il promettente toscano Giulio Bresci, la Viscontea, capitanata da "Testa di vetro" Robic, la Cimatti con l’anziano Ezio Cecchi, la francese Helyett con i fratelli Lazarides, la piacentina Arbos con lo svizzero Fritz Schaer, la Benotto con il solido Aldo Ronconi.

Chiudeva l’elenco la Guerra, formazione diretta dall’ex locomotiva umana che, con Olimpio Bizzi, il "morino" di Livorno ormai verso fine carriera, schierava un giovanotto svizzero di belle speranze e di bell’aspetto: Hugo Koblet.

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La prima maglia rosa fu conquistata da Oreste Conte, al termine della Milano-Salsomaggiore. Il velocista della Bianchi superò agevolmente il compagno di squadra Keteleer, il vecchio Bizzi e altri otto compagni di fuga.

Sul traguardo di Firenze, al termine della seconda tappa, vinse Alfredo Martini, futuro commissario tecnico della nazionale italiana, e la maglia rosa passò sulle spalle di Fritz Schaer, piccolo scalatore svizzero dalla pedalata sgraziata.

Nelle tappe successive si imposero Bizzi, Bevilacqua e Franchi senza variazioni in classifica.

Bartali e Coppi si limitavano a controllarsi e fu così che, nella Torino-Locarno, non percepirono la pericolosità dell’attacco del biondo Koblet. Lo svizzero andò in fuga e giunse solo al traguardo, risalendo al terzo posto in classifica.

Fausto e Gino aspettavano le salite per scoprire le loro intenzioni.

A Brescia si impose Luciano Maggini e Alfredo Martini sfilò la maglia rosa dalle spalle ingobbite di Schaer.

Il sogno rosa di Martini durò l’arco di una giornata. Nella nervosa Brescia-Vicenza, Bartali e Coppi si marcarono stretti, Koblet fuggì con il giovane Pasqualino Fornara di Borgomanero, vinse la tappa e tolse la maglia a Martini per 19".

Bartali giunse al traguardo in terza posizione davanti a Pasotti, Coppi, Soldani, Kubler, Giudici e Martini.

In classifica generale, alla vigilia delle Dolomiti, Fausto aveva un ritardo di 3’ 58" dalla maglia rosa mentre Gino era a 6’ 12".

I due grandi campioni di casa nostra aspettavano con ansia la Vicenza-Bolzano, unica vera tappa di salita del Giro, con l’atroce dubbio di avere sottovalutato le fughe del giovane Koblet.

La Vicenza-Bolzano, come nelle previsioni, fu decisiva per il risultato finale del Giro ma in maniera imprevedibile. Infatti, sulle Scale di Primolano, Coppi e Peverelli si urtarono e caddero. Le fragili ossa del grande Fausto cedettero.

Immaginatevi il dramma di Coppi, che, diagnosticata una infrazione al bacino, dovette stare per quaranta giorni immobile a letto. Immaginatevi il dramma di Armando Peverelli, milanese di Greco, classe 1921, senza alcuna vittoria nel suo palmarès, che sarebbe passato alla storia più per avere fatto cadere Coppi a Primolano che per il terzo posto ottenuto nella tappa di Livorno dietro Bizzi e Vincenzo Rossello. Peverelli disputò ancora qualche corsa nel 1951 con la svizzera Tebag e poi appese la bicicletta al chiodo: difficile stabilire se il tutto fu conseguenza o meno del fattaccio di Primolano.

A distanza di tempo sembra ingeneroso addossare le colpe al povero Peverelli; sta di fatto che, per noi bambini del 1950, il Giro finì a Primolano.

Il duello tra Fausto e Gino era finito e poco importava la vittoria di Bartali sul traguardo di Bolzano senza però essere riuscito a staccare Koblet, poco importava del ritiro di "Testa di vetro" Robic, poco importava di tutti gli assalti che il vecchio Gino, in condizioni fisiche non ottimali, portò all’elegante Hugo dal pettinino sempre nelle tasche della maglia.

Il Giro era finito a Primolano e a Roma, dove sul traguardo finale si impose ancora la veloce ruota di Oreste Conte, Hugo Koblet salì sul gradino più alto del podio e fu il primo vincitore straniero del Giro d’Italia.

Fin qui i miei ricordi di bambino, documentati ovviamente da pagine di riviste conservate, tra cui la foto di "Sport Illustrato" che riprendeva Coppi sofferente dopo la caduta di Primolano, sorretto da Oreste Conte.

Molti anni dopo, sfogliando vecchie riviste in emeroteca, scoprii che Hugo Koblet aveva vinto il Giro del 1950 grazie agli abbuoni posti agli arrivi di tappa ed in particolari traguardi intermedi.

Senza gli abbuoni, sia pure per una manciata di secondi, il Giro sarebbe stato appannaggio di Bartali. Accidenti!

Beh, caro vecchio Ginettaccio, forse non avevi tutti i torti a dire che "era tutto sbagliato, tutto da rifare".

 

9 maggio 2004