Bartaliani si nasce

 

Che cosa spinge una persona a tifare per questa o quella squadra o per questo o quel campione?

Molti seguono le convinzioni paterne, altri, quasi per dimostrare che i genitori non capiscono molto, abbracciano fedi opposte. C’è chi segue il trend del momento e chi si affida a simpatie istintive.

Nel mio caso, posso dire che a farmi diventare bartaliano praticamente dalla nascita è stato nonno Peppino.

Mio padre e mio nonno, negli anni trenta, erano tifosi del grande Alfredo Binda. Con il ritiro del fuoriclasse di Cittiglio, non potevano certo tifare Locomotiva Guerra, rivale del loro idolo. Ma ecco, proprio al momento opportuno, sbucare l’astro nascente, Gino Bartali da Ponte a Ema: viva Bartali allora!

Papà era tifoso, sì, ma moderato, forse preferiva il calcio. In gioventù aveva provato a partecipare ad una gara ciclistica in sella ad una bici da corsa avuta in prestito da un amico; giunse all’arrivo quando già si accendevano i primi lampioni e gli organizzatori stavano smontando lo striscione del traguardo. Trasferitosi a Milano per motivi di lavoro, si trovò quasi senza volerlo a tifare per il Milan, la squadra più debole della città, quella dei "casciavitt".

Nonno Peppino no! Nonno Peppino teneva ancora per il Genoa e poi aveva nel cuore il ciclismo e Bartali.

Erano gli anni del grande dualismo "Bartali-Coppi" o "Coppi-Bartali", a seconda dei punti di vista. Per mio nonno era "BARTALI-coppi". Più che un tifoso era un fanatico, che giungeva al punto di negare l’evidenza.

La guerra ed i bombardamenti su Milano avevano consigliato ai miei genitori di lasciarmi a Langhirano, attuale capitale del prosciutto di Parma, da nonna Adele e nonno Peppino, i quali, assai contenti di tenermi con loro, fecero di tutto per viziarmi, nei limiti consentiti dalla guerra.

Nel 1946, appena fu possibile, il nonno mi procurò la prima bicicletta, assemblata con pezzi recuperati qua e là da Leoni, il meccanico del paese: telaio grigio da bambina e, avvitata sul parafango anteriore, una statuina di Fortunello.

Imparai in fretta. Intanto nonno Peppino mi stava facendo una specie di lavaggio del cervello: Bartali qui, Bartali là, mi sembri Bartali, e così via.

Per la verità, a quei tempi, il mio tifo ciclistico era tutto per Brunòn, un ragazzone robusto che, a duecento metri dalla casa dei nonni, coltivava alcune biolche di terra. Quando c’era qualche corsa amatoriale, Brunòn infilava un paio di scarpette scalcagnate ed una maglia marrone – un colore che storicamente non va d’accordo con il ciclismo – prendeva la bici da corsa, che normalmente teneva sotto il portico assieme agli attrezzi del lavoro, e via!

Crescendo, capii che Bartali era sicuramente più bravo di Brunòn e, con grande soddisfazione di mio nonno, divenni bartaliano convinto.

Nel 1947, papà, per sbarcare il lunario, iniziò a fare il meccanico ciclista, dapprima in un ex rifugio antiaereo, con tanto di porta blindata, poi in una piccola officina in un cortile di via Padova. Doveva montare le biciclette per conto della ditta Traldi. Durante la guerra si era arrangiato ad aggiustare qualche bicicletta, ma montarne una dall’A alla Z era un’altra cosa. E poi …. come si faceva a fare una ruota?

Imparò guardando la ruota di una bici esposta in un negozio. Il negozio era quello della Legnano in Corso Buenos Ayres, vicino a Piazzale Loreto, e la ruota era quella di una bicicletta molto importante: quella con la quale Bartali aveva vinto la Milano-Sanremo. Ero con papà in quella occasione e ricordo molto bene quella grande bicicletta al centro della vetrina, con un mazzo di fiori appoggiato sul manubrio: fu il colpo di fulmine decisivo.

Nel 1949, Bartali, sfruttando il clamore per la sua vittoria al Tour dell’anno precedente, decise che quello era il momento per lanciare le sue biciclette, curiosamente costruite da Santamaria a Novi Ligure, praticamente a casa di Coppi. Gino allestì anche la sua squadra: maglie gialle con colletto e bordi sulle maniche blu.

Nonno Peppino mi fece costruire, dal solito Leoni, una bici da maschietto con tanto di manubrio da corsa. Andammo poi dalla Nenna, una magliaia che lavorava in casa, e mi fece fare una maglietta gialla e blu, alla Bartali.

Non mi pareva vero: una bicicletta da corsa, la maglia con le tasche e la scritta "Bartali", un berrettino giallo con la visiera di celluloide blu!

Purtroppo quelle furono le ultime gioie di nonno Peppino.

Al Giro d’Italia, nella Cuneo-Pinerolo, un incredibile Coppi strapazzò tutti con una interminabile fuga solitaria e vinse la corsa rosa. Mio nonno non sapeva più come fare a difendersi dagli attacchi dei suoi amici, in gran parte coppiani; cercava in tutti i modi di sminuire l’impresa di Fausto. Ah, se Gino avesse avuto cinque anni di meno ….

La crisi di Coppi all’inizio del Tour penso che abbia procurato a nonno Peppino una grande gioia, anche se mascherata

in parte con aria di sufficienza: è meglio non infierire sui coppiani, tanto ormai per Fausto il Tour è perso.

La sera del 19 luglio, quando Coppi, al termine della Briancon-Aosta, conquistò la maglia gialla, eravamo tutti riuniti in cortile a godere un po’ di fresco.

I coppiani gioivano, lanciando frecciate ai pochi bartaliani presenti. Mio nonno era terreo, non parlava, sembrava assente.

Nonna Adele, vedendolo così, lo fece entrare in casa con una scusa:

"Peppino, d’accordo che ha vinto Coppi, ma non puoi comportarti così".

"No, Adelina. Cosa vuoi che mi importi del Giro di Francia? Ho un male tremendo a questo dito."

Nonno, che era capo-cantoniere, un paio di giorni prima, nel pulire con una spazzola di ferro la ringhiera di un ponticello sulla strada per Berzola, si era punto il pollice della mano destra.

Il nove agosto nonno Peppino moriva per setticemia all’ospedale di Parma.

Come avrei potuto non restare bartaliano a vita?

 

13 giugno 2004