Mamma mia, i crampi!

 

La grande passione per il ciclismo mi portò, nella seconda metà degli anni cinquanta, a staccare la licenza ed a cimentarmi nella corse per "esordienti" (1958) e "allievi (1959 e 1960).

Il grosso problema era quello di trovare il tempo per gli allenamenti perché, con quaranta ore settimanali di lezione all’Istituto Tecnico Industriale, rimaneva libera una sola mezza giornata, che peraltro non sempre riuscivo ad utilizzare o per il maltempo o per altri impegni.

Così quando partecipavo, la domenica, a qualche corsa, faticavo a tenere le ruote del gruppone e non riuscivo quasi mai a giungere al traguardo. Ma mi andava bene anche così, l’importante era trovarsi alla partenza, attaccare con quattro spille da balia il numero sulla schiena, sentire l’odore intenso dell’olio canforato, vivere dall’interno il clima della corsa, poi quello che veniva, veniva.

In estate però cambiava tutto. Da giugno a settembre, durante le vacanze scolastiche, mi trasferivo a Langhirano, a casa di nonna Adele, e "facevo il professionista": allenamenti quotidiani di ottanta-cento chilometri assieme a quattro o cinque amici. In valore assoluto non potevo fare grandi cose ma, ben allenato, riuscivo a portarmi ai limiti massimi delle mie modeste possibilità.

Alla fine di giugno del 1960 si correva all’estrema periferia sud di Parma il Trofeo Enalotto, una gara a cronometro a squadre su un circuito di quindici chilometri da ripetere tre volte. Il circuito era una specie di rettangolo con quattro curve a novanta gradi, lunghi rettilinei, piatto come un biliardo.

Non mi piaceva quel circuito. Prediligevo i percorsi nervosi con molte curve, dove sopperivo con una certa predisposizione per lo scatto breve alla congenita scarsità di potenza.

Ero anche scontento per come la mia società, la Frassati di Parma, aveva composto i terzetti. Logico che a formare la squadra "A" fossero stati chiamati Manfredini, Frati e Savina, ma nella "B", assieme al mio amico Giancarlo Marchi, avrei voluto esserci io perché mi ritenevo, forse anche a ragione, superiore sia a Canetti sia a Ferrari, gli altri due del terzetto. Mi ritrovai così nella squadra "C" con Ireneo Bernardi e Guelfo Boschi. Boschi era sicuramente inferiore a me mentre Bernardi sarebbe stato un eccellente compagno ma aveva un grosso difetto: non si allenava quasi mai.

Il sorteggio dell’ordine di partenza mi piacque ancora meno. Un minuto prima di noi sarebbe partita la squadra "A" dell’Audax, capitanata dal fortissimo Manghi e, un minuto dopo, la squadra regina, quella di Manfredini, Frati e Savina.

Presi il via quasi di malavoglia ma, una volta in corsa, dimenticai tutti i malumori e pensai solo a pedalare.

"La gamba era buona" come si dice in gergo. Anzi, mi meravigliai delle "trenate" che riuscivo a fare su quei lunghi rettilinei. Guelfo faceva quello che poteva e, stringendo i denti, dava un contributo più che accettabile, però la vera sorpresa era Ireneo, quello che non si allenava quasi mai: era efficacissimo e prontissimo nei cambi.

Ireneo e io tiravamo più forte e più a lungo, però Guelfo, che passava in testa per tratti un po’ più brevi, ci dava il tempo sufficiente per rifiatare. Ci accorgemmo di andare molto bene, anche senza nessun confronto con le altre squadre.

A metà del secondo giro, molto più tardi del previsto, fummo raggiunti dal terzetto della Frassati "A": un minuto di ritardo a metà gara dalla squadra più forte. Un ritardo ipotetico di due minuti al traguardo poteva essere considerato un risultato ottimo.

L’incredibile Ireneo, si mise in testa e, lasciando la Frassati "A" cinquanta metri più avanti giusto per non farci giudicare accodati da eventuali giudici di gara, ci pilotò per mezzo giro alla stessa velocità dei favoritissimi. Cose da non credere. Gli chiesi un paio di volte se volesse il cambio ma rifiutò, dicendo di sentirsi benissimo.

Alla campana eravamo ancora in scia. Sentii nitida la voce di Lello Sillari, il diesse della Frassati, che ci urlava: " Dai, che siete in lotta per il secondo posto!".

Al momento pensai ad una pietosa bugia per darci coraggio, ma quando, poco dopo, vidi cento metri davanti a noi tre maglie amaranto con fascia gialloblu, capii che avevamo guadagnato un minuto sull’Audax di Manghi.

Fu come una sferzata. Allora, eravamo davvero in lizza per il secondo posto, quasi un miracolo!

Superai Ireneo e mi portai in testa a tirare; che bello raggiungere Manghi e soci!

Ero galvanizzato, non sentivo più la fatica, mi versai in testa l’acqua rimasta nella borraccia, mi sembrava di volare. Capivo che i miei due compagni faticavano a tenermi la ruota, ogni tanto mi voltavo, stringevano i denti ma erano sempre lì.

A dieci metri dal terzetto dell’Audax, improvvisamente, un dolore lancinante al polpaccio destro. I muscoli mi si contrassero, duri come cemento, il piede mi si bloccò sghembo sul pedale: i crampi! Urlai di dolore.

Non avevo mai provato i crampi e non sapevo nemmeno come gestirli. Urlai, imprecai, forse piansi mentre l’Audax guadagnava terreno.

Ireneo e Guelfo mi spinserò per alcune centinaia di metri, poi ripresi a pedalare, leggero, senza spingere, ammorbidendo la pedalata ogni volta che sentivo "tirare" i muscoli. A non più di sette-otto chilometri dal miracolo il mondo mi era crollato addosso.

I miei due compagni erano ormai in riserva e quelli dell’Audax erano ormai spariti.

Sul lungo viale d’arrivo mi misi in testa sparando le ultime energie nella speranza che Ireneo e Guelfo potessero dare qualcosa di più ma non riuscirono nemmeno ad uscirmi di ruota.

In pochi chilometri il miracolo era svanito nel nulla.

Riuscimmo a salvare la quinta posizione per l’inezia di un solo miserabile secondo su quelli dell’Audax.

 

26 giugno 2004