Pèpo, il fabbro di Langhirano

 

Negli anni cinquanta, Pèpo era il fabbro di Langhirano.

Al suo laboratorio si accedeva da un portico all’interno del quale c’era anche l’ingresso del forno "900", dal quale usciva, prepotente, un piacevole profumo di pane.

Il portico era proprio di fronte alla chiesa parrocchiale; sull’altro lato della strada, in un piccolo capannone, Amilcare ed il figlio Peppino costruivano casse da morto: a cinquanta metri dalla chiesa era il massimo della comodità!

Vicino al capannone di Amilcare c’era una fontanella molto frequentata, dalla quale, azionando una grossa ruota con manovella, sgorgava la migliore acqua del paese.

Dall’acqua al vino: dietro la fontanella si trovava l’osteria dell’Aquila Nera, dalla quale, il sabato sera, uscivano voci più o meno sobrie che intonavano in coro le immortali arie di Verdi. Ogni tanto il canto si fermava per lasciare spazio a furibonde liti. "L’hai presa troppo alta!". "No, sei tu ad averla presa bassa!".

Pèpo era soprannominato "Pluga rossa" (pulce rossa) perché le sopracciglia e i capelli, ormai bianchi, erano stati in gioventù rosso carota.

I soprannomi, le "scumagne", come direbbe zio Athos nel dolce idioma lodigiano, i "stranòm", come si dice in parmigiano, erano diffusissimi a quei tempi in tutta l’Emilia. Così in paese c’erano "Bonierba" (prezzemolo), che faceva stranamente il macellaio e non il fruttivendolo, "Lorogno", che non aveva niente a che vedere con il noto ciclista spagnolo, "Cristo", che si chiamava semplicemente Cristoforo", "Sbordacèn" (piccolo scarabocchio), "Balilèn" (piccolo balilla), "Bola", "Pistèn", "Moscòn" e così via.

Anche nei nomi di battesimo dominava la fantasia. Avevamo infatti Widmer, Wando, Guelfo, Celso, Tienno, Waimer, Iller, Emo, Bixio, per citarne solo alcuni.

Ma torniamo a Pèpo. Se il suo laboratorio ufficiale era all’interno del portico, la sua attività si svolgeva praticamente all’aperto, sul bordo della strada, di fonte alla fontanella e così, tra un cordone di saldatura e qualche martellata levascorie, trovava il modo di chiacchierare del più e del meno con i passanti,

I maligni dicevano che lavorasse in strada proprio per potere attaccare bottone e che, tra l’altro, non gli importasse più di tanto degli argomenti trattati: tanto per parlare, insomma.

Pèpo era stato un grande tifoso di Bartali e, dopo l’addio alle corse da parte di Ginettaccio, divenne baldiniano.

Ercole Baldini, nel 1956, ancora dilettante, aveva vinto con i colori gialloverdi della "Giberti-Borelli" di Carpi, una corsa in circuito proprio a Langhirano, giungendo solo al traguardo, dopo avere doppiato tutti gli altri concorrenti, compreso l’idolo locale Gianfranco Beccanti, un buon dilettante ormai sul viale del tramonto, che aveva fatto anche la comparsa nel film "Donne e soldati" girato nel vicino castello di Torrechiara.

Da allora Pèpo aveva trovato il sostituto di Bartali.

In effetti, Baldini aveva fatto sperare gli appassionati di ciclismo italiani, specialmente dopo il mondiale di Reims.

Pèpo quel giorno era, come tutti noi ragazzi, al solito bar per vedere la corsa alla televisione: una saletta piccola, buia e calda, annebbiata dal fumo delle sigarette e il televisore sistemato in alto, quasi al soffitto, alla faccia della cervicale.

Acqua a catinelle sul circuito iridato. Fuga iniziale di Bobet, Nencini e Voorting. Coppi, in cabina di regia per il suo ultimo mondiale, suggerisce a Baldini di andarli a prendere. Ercolèn esegue e il quartetto va al traguardo perdendo i pezzi per strada. Resta solo Bobet a contrastare l’elettrotreno di Forlì ma, finalmente, ecco l’annuncio tanto atteso: Baldini è solo! Una telecamera montata su una vecchia jeep assurge agli onori di prima telecamera mobile al seguito di una corsa ciclistica e ci mostra gli ultimi chilometri del fuggitivo, che trionfa nella semioscurità, alzando il braccio destro, sotto le tribune del vecchio circuito stradale di Reims.

La saletta del bar era una bolgia, Pèpo era contentissimo e sfoggiava la sua competenza in materia di ciclismo: "L’éva dit mi fin da quand l’ha vens a Langhiràn" (L’avevo detto io già quando ha vinto a Langhirano).

Ma la stella di Baldini cominciò ad offuscarsi già dall’anno dopo, lasciando l’amaro in bocca al fabbro.

Quando noi, ragazzi appassionati di ciclismo, passavamo da lui, ci chiedeva:"E Baldèn? Saràl miga bel e fnì." (E Baldini? Non sarà già finito).

Il dubbio del fabbro avrebbe trovato in parte conferma perché il corridore forlivese non si sarebbe più ripetuto ai livelli del 1958 e, pur continuando a difendersi egregiamente a cronometro, le grandi salite divennero per lui ostacoli quasi insormontabili.

Pèpo tornò a rifugiarsi nel ricordo di Gino Bartali e, ogni volta che si parlava di ciclismo, portava ad esempio il Tour de France del 1948.

Noi ragazzi cercavamo di far cadere sempre il discorso su Bartali perché sapevamo che avrebbe di nuovo ripetuto il solito racconto, che ci faceva tanto ridere per via di un errore …. geografico.

"Bartali sui Pirenei al g’heva mes’ora d’ distàc da Bobèt ma quand en rivè sul Dolomiti al g’ha arciapè la mes’ora e ghn’ha dè n’etra" (Bartali sui Pirenei aveva mezz’ora di distacco da Bobet ma, quando sono arrivati sulle Dolomiti, gli ha ripreso la mezz’ora e gliene ha data un’altra).

Pèpo aveva un figlio con tanto di soprannome, "Pateca". Non faceva il fabbro ma era impiegato in un prosciuttificio.

Aveva i capelli rossicci ed era un ottimo ballerino. Nelle feste di paese oltre a ballare, ogni tanto cantava (piuttosto bene) con qualche orchestrina improvvisata. Inoltre, "Pateca" giocava come terzino destro nella locale squadra di calcio. Dicevano che era veloce, tempista e che "picchiava come un fabbro".

Un chiaro caso di "pater certus".

 

3 luglio 2004